sabato 31 gennaio 2015

Perchè si tradisce il proprio partner?



Una vecchia canzone recitava: “Quasi, quasi lo farei … Quasi, quasi dimmelo… quasi, quasi ti ho tradito e mi sono divertito.. “. Ma sarà vero o il tradimento miete morti e feriti?
Molte persone intraprendono una psicoterapia in seguito ad un tradimento, sia che l’abbiano subito, perché per loro è un trauma sia che l’abbiano agito, poiché di solito ne segue una crisi coniugale e di conseguenza individuale, sia che siano stati l’oggetto del tradimento, perché perseguono un rapporto inesistente. L’80% dei tradimenti vengono scoperti, ma nel 70% dei casi le coppie ufficiali sopravvivono all’intrusione di una terza persona e non si separano, a causa della dipendenza affettiva(De Bac, 2006).
Il tradimento è un uragano che sradica tutto ciò che si è costruito, portando con sé un senso di morte, lacera quelle vite di coppia che hanno un urgente bisogno di un radicale rinnovamento, pena il lento decadimento affettivo dell’unione e dei singoli individui.
Persino Cristo è stato tradito dai suoi amici, Pietro prima e Giuda poi. Da questo episodio deriva l’attuale connotazione negativa del termine “tradire”. Infatti, nella lingua latina esso aveva tutt’altro senso, significava “consegnare”, “svelare”, “insegnare”, “trasmettere ai posteri”. Prima del cristianesimo, il “traditore” era colui che compiva un passaggio di informazioni importanti. Andando indietro nel tempo, tutto l’Antico Testamento è disseminato di tradimenti, Caino e Abele, Giacobbe ed Esaù, Labano, Giuseppe venduto dai fratelli, le promesse mancate dal faraone, l’adorazione del vitello d’oro alle spalle di Mosè, Saul, Sansone, Giobbe, le ire di Dio verso il suo popolo: il diluvio universale… insomma, Israele, si sa, è stata una sposa infedele ma Dio, tuttavia, non ha mai cessato di cercarla e di amarla in modo straordinario e unico (Hillman 1967).
Nella cultura greca, il tradimento era un evento molto frequente, ma vissuto con una certa leggerezza e spesso non giudicato come “peccato”, sembrava una cosa naturale, umana e possibile.
La coppia regale Zeus ed Era, era senza dubbio quella più tormentata dal tradimento. In questo famoso matrimonio le numerose scappatelle del marito suscitavano le ire della consorte, ma senza mettere mai in discussione il rapporto. Malgrado tutto, né Zeus né Era hanno rinunciato mai l’uno all’altra, perché legati da un vincolo d’amore potente e indissolubile.
In questo viaggio a ritroso alle radici del tradimento ci imbattiamo inevitabilmente nel tradimento originario, quello di Adamo ed Eva verso Dio. Il serpente edenico, instillando la curiosità, indusse Adamo ed Eva a cedere alla tentazione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, perdendo così i benefici di un mondo incantato, senza problemi, senza dolore, né sofferenza, né morte. Quindi, violando la fiducia di Dio, il tradimento come un uragano sradica tutto ciò che avevano costruito, portando con sé un senso di perdita e di peccato che anche oggi attanaglia la felicità delle coppie dei nostri giorni.
All’inizio della relazione clandestina c’è una sorta di regressione ‘adolescenziale’. Lo schema sentimentale ricorda appunto quell’età caratterizzata da amori fortemente passionali accompagnati da un turbinio d’emozioni. A differenza di quegli amori, questa volta ci saranno conseguenze imprevedibili, che si tende a sottovalutare e sorvolare, si preferisce non vedere. Il tradimento mantiene sempre la relazione “tre metri sopra il cielo”, perché  non presenta  litigi, quotidianità e preoccupazioni tipiche del  matrimonio o della convivenza.
Perché si tradisce? Forse, per cercare un altro al di fuori dall’ equilibrio familiare, o per sfuggire alla tristezza, all’insoddisfazione, alla mancanza di gratitudine, ad emozioni che rimandano un senso di inutilità, di poca desiderabilità, di solitudine, di costrizione. In questo modo, non essendo liberi di esprimersi, di sentirsi se stessi, prevale la paura, l’ansia in cui, purtroppo, si perde anche la stima, l’amore e la dignità dell’altro. Il traditore è spesso privo di capacità di fondare la propria esistenza intorno ad un proprio centro interiore e ha la compulsione a riempire i vuoti con punti di riferimento esterni, col partner prima e, quando questo non corrisponde più ai suoi bisogni, con altri partner, oppure con il lavoro, con sostanze, con il gioco, con l’alcool, in una fuga continua da sé stesso. E’ una persona che non appartiene a nulla e nulla mai gli apparterrà totalmente, se non l’inutilità e il vuoto del suo essere evanescente. Quindi, mentre il traditore nega e scappa, perché non riesce a stare in ascolto di sé, il tradito pretende e attanaglia l’altro a causa della sua insicurezza e, d’altra parte, l’amante rincorre e sogna il mondo che non c’è. Nessuno dei tre, in definitiva, è presente a sé stesso e nessuno è in grado di rimanere da solo, di fare i conti con la propria incapacità di bastare a se stesso.
Ciò che è importante imparare dalle nostre vite è la certezza di poter attraversare anche la solitudine. Quando questa fiducia interiore viene meno, il tradimento è in agguato. La nostra psiche è la natura stessa, è una sua scintilla, è colei che crea e nutre, ma sa essere anche potentemente violenta, se necessario, e spesso, è costretta ad esserlo per salvarci dal peggio.
L’individualità richiede il coraggio di essere soli e di opporsi a un mondo che tradisce e banalizza (Carotenuto 1991).
                                                          
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Fonte: http://www.stateofmind.it/

mercoledì 28 gennaio 2015

La psicoterapia cura l'ansia cronica meglio dei farmaci



Si chiama “Disturbo da ansia generalizzata” ed è quella forma di ansia persistente, difficile da controllare, che rende costantemente preoccupati, anche quando non ci sarebbero motivi. Alla preoccupazione si associano spesso irritabilità e sintomi somatici, quali la sensazione di stanchezza e la tensione muscolare.

Caratteristiche di un disturbo persistente
Diversi studi hanno dimostrato che questo disturbo è più frequente in chi ha avuto difficili esperienze in età infantile e tra le persone che hanno la tendenza a mostrarsi timide e inibite di fronte alla nuove situazioni. La persona ansiosa osserva l’ambiente circostante alla continua ricerca di possibili segnali di pericolo, di minacce incombenti. Si preoccupa a dismisura quando c’è da risolvere un problema, ha difficoltà a tollerare le situazioni di ambiguità e incertezza, è oppressa dalla sensazione di mancato controllo. Si tratta di un disturbo che può persistere ma che si può anche superare, seppure con un certo rischio di ricaduta: una ricerca pubblicata sull’American Journal of Psychiatry indica che il 60% delle persone ne soffre ancora dopo 12 anni dalla prima rilevazione; del 40% che lo ha superato, circa la metà torna a essere nuovamente preda dell’ansia nel giro di altri 12 anni. Il decorso è più protratto tra le persone che hanno iniziato ad avere già da molto giovani i primi sintomi dell’ansia. Si tratta dei casi nei quali è più facile che si associno a questa condizione anche altri disturbi psichici, come la depressione, disturbi d’ansia ulteriori legati a specifiche condizioni di vita, e l’uso di sostanze.
 
Per l’ansia cronica grandi risultati con la psicoterapia
A fronte di un’ansia tendenzialmente cronica, si cerca di ricorrere il meno possibile ai farmaci ansiolitici, più indicati per il trattamento di forme acute e transitorie. L’obiettivo diventa puntare su una psicoterapia. «Gli ansiolitici, come le benzodiazepine, possono indurre dipendenza e assuefazione, con il risultato che nel tempo il paziente può aumentarne la dose nel tentativo di ricercare gli stessi effetti. E quando il farmaco viene sospeso di solito l’ansia torna a salire — dice il dottor Paolo Migone, psicoterapeuta, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane —. Possono essere usate con qualche beneficio altre classi di farmaci, ad esempio certi antidepressivi, che a volte agiscono anche contro l’ansia, ma per ottenere risultati migliori non si può prescindere da una psicoterapia. Durante le sedute si cerca di comprendere se nella vita del paziente vi sono motivi alla base della sua ansia, e lo si fa in una situazione di sicurezza e rilassamento all’interno della relazione terapeutica». «Vi sono vari approcci psicoterapici per l’ansia generalizzata, — prosegue Migone — molti dei quali sono diffusi anche in Italia, dove operano psicoterapeuti di orientamenti diversi. Dalla ricerca in psicoterapia risulta una maggior efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali, si può affermare senz’altro, dati alla mano, che la psicoterapia è efficace nel trattamento dell’ansia più di quanto siano efficaci i farmaci antidepressivi nel trattamento della depressione».
Ecco il tuo Psicologo Ansia Pescara !


                                                          
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Dr. Di Venanzio il tuo Psicologo Pescara


Fonte: http://www.corriere.it/



sabato 24 gennaio 2015

Mi ama o non mi ama? E' questione di mani....






Non ci innamoreremmo mai di un termosifone né usciremmo mai con una stufa, ma forse è giusto sapere che non sarà più possibile dopo una stretta di mano un po` freddina rispondere "mani fredde cuore caldo". Secondo una ricerca dell`Università di Yale, che sarà pubblicata oggi sulla rivista Science, il calore corporeo guida l`interpretazione dei nostri sentimenti nei confronti degli altri e quindi una mano calda può essere d`aiuto. 
Quella persona è fredda. Per un proverbio che se ne va, un`altra espressione tipica resiste. Quando si dice di una persona distaccata e un po` scostante che è fredda non si sbaglia. Lo stesso quando si definisce "calda" una persona cordiale e socievole. A dimostrarlo gli esperimenti dei ricercatori. Anche un cappuccino o un thè bollente possono fare la differenza. I test hanno dimostrato che è più facile giudicare positivamente al primo sguardo una persona che sorseggia una bevanda calda, rispetto a una che ne manda giù una con ghiaccio.
Sconosciuti in ascensore. Per provare la loro ipotesi gli esperti di Yale, guidati dallo psicologo Lawrence Williams, hanno preparato un percorso per i partecipanti al test: dovevano arrivare al quarto piano per raggiungere il laboratorio e nel frattempo prendere un ascensore nel quale incontravano un ricercatore in incognito e un po` maldestro, che chiedeva un aiuto per reggere una bevanda calda o una fredda. Arrivati nel laboratorio dovevano rispondere a un questionario su un soggetto immaginario. I ricercatori hanno scoperto che chi aveva tenuto tra le mani una tazza di caffè caldo descriveva la persona come socievole e generosa, al contrario chi aveva portato su una bevanda fredda definiva la stessa persona egoista e antisociale.
"La gente non è necessariamente guidata dalla razionalità nelle sue decisioni - spiega Williams - e questo studio ci ha aiutato a capire come l`ambiente fisico può influenzare i nostri giudizi sugli altri". Ma c`è di più. I componenti del "gruppo caldo", messi davanti alla decisione sul fare o meno un regalo ad un amico, erano più generosi, quelli del "gruppo freddo" egoisticamente preferivano sceglierlo per sé. Una cosa in più da sapere se si vuole strappare all`amico o al collega un aiuto: offrite loro un bel caffè.






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Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/


martedì 20 gennaio 2015

Le relazioni stabili aumentano il nostro benessere








Avere una relazione stabile migliora notevolmente lo stato di salute e tanto è più longeva, tanto più il benessere personale ci guadagna. E lo status giuridico non c'entra nulla: secondo lo studio condotto dai ricercatori dell'Universtiy of Otago e pubblicato sul British Journal of Psychiatry, infatti, essere sposati o fidanzati non fa differenza: l'importante è che la relazione sia il più duratura possibile, così da allontanare il più possibile la depressione e l'uso di alcol e sostanze stupefacenti.
Il "giro di boa" sembrano essere i due anni: dopo  24 mesi di relazione si comincia a beneficiare degli effetti positivi sulla salute. Non prima: gli studiosi, dopo aver esaminato lo stile di vita di circa 1.000 neozelandesi, hanno rilevato che intorno ai 30 anni il 16% delle persone che non aveva un rapporto stabile ha mostrato sintomi di depressione rispetto al 23% di coloro che avevano una relazione da meno di due anni. Il tasso è invece sceso a meno del 10% tra le persone che avevano una storia che durava da due-quattro anni, e arrivava appena al 9% per i componenti della coppia che avevano una relazione da più di cinque anni.

Gli studiosi hanno anche riscontrato che il tasso di abuso di alcol o stupefacenti era del 12% tra i trentenni single e del 13,5% tra le persone che avevano una relazione da meno di due anni, mentre solo il 4% di coloro che avevano una storia di due-quattro anni hanno fatto rilevare problemi di alcol, e la percentuale è scesa al 3% per i soggetti che avevano una relazione da più di cinque anni. I ricercatori hanno scoperto che i dati sono risultati confermati anche dopo aver controllato altri fattori come il background familiare e precedenti problemi di salute mentale: "Abbiamo scoperto che lo status giuridico del rapporto non fa la differenza - spiega Sheree Gibb, che ha partecipato alla ricerca -. È la durata del rapporto che ha un effetto positivo sulla salute mentale dei cittadini, e non importa se la coppia è sposata o convivente. Il nostro studio contrasta con ricerche precedenti che hanno messo in evidenza una minor incidenza di problemi mentali solo tra le persone sposate e non tra quelle conviventi".



giovedì 15 gennaio 2015

Come farci ascoltare dai nostri filgi





Se i vostri figli non vi ascoltano, con molta probabilità, il problema potrebbe avere a che fare con il vostro stile comunicativo. “Per insegnare ai bambini ad ascoltare, infatti, dovete coltivare in loro l’abilità di prestare attenzione a quello che dite. Parte di questa abitudine ha a che fare con il modo in cui parlate con loro”, spiega dal suo studio di Oakland, in California, Erica Reischer, psicologa e coach genitoriale (www.drericar.com). Per esempio, se chiamate ripetutamente i vostri figli, ma rinunciate quando non ottenete risposta, in pratica state insegnando che ignorare le persone è un’opzione fra le molte possibili. Se invece, quando non vi rispondono alzate la voce, rafforzate nei vostri figli l’abitudine ad ascoltarvi solo se sentono il tono salire. La prima cosa da fare per una comunicazione produttiva, dunque, è assicurarsi che i bambini ci stiano ascoltando. “Molto spesso, infatti, i bambini mancano di consapevolezza periferale: sono completamente assorbiti da qualsiasi attività a cui si stanno dedicando”, fa notare l’esperta. Basta guardare un bambino alle prese con le costruzioni, per rendersene conto, ma fino ai quattordici anni tutti sono facilmente distratti e possono non notare quello che avviene attorno a loro. Questo non esclude, però, che i bambini ci stiano deliberatamente ignorando. “I nostri figli continuano a metterci alla prova: sono curiosi di vedere come ci comportiamo, come reagiamo alla situazione. Se, come genitori, siamo inconstanti nelle nostre reazioni, in qualche modo corriamo il rischio di provocare la loro curiosità e, paradossalmente, è come se li invitassimo a testare ogni volta quello che hanno appreso su di noi”, osserva Reischer. In generale, dunque, è importante dimostrare ai nostri figli che il nostro comportamento ha delle radici razionali, perché questo ci permette di costruire una relazione positiva. Ci sono poi i casi in cui, anche volendo, i bambini non riescono a seguirci, perché usiamo termini per loro troppo sofisticati che, se da un lato contribuiscono a migliorarne il vocabolario, dall’altro impattano negativamente sulla possibilità di farci capire. Un discorso a parte meritano i teenager, naturalmente refrattari alle parole di mamma e papà. “In questi casi, bisogna essere consapevoli del rischio che si incorre quando i bambini crescono e dunque bisogna lavorare fin da piccoli per costruire una relazione di fiducia che servirà come base di partenza quando, crescendo, i rapporti tenderanno a farsi più difficili”, avverte l’esperta. 

Per un efficace action plan, ecco sette tattiche da mettere alla prova:

1) Catturate l’attenzione 
“Quando gli chiedete di fare o non fare qualcosa, assicuratevi che i vostri figli vi abbiano sentito”. Utili a questo proposito alcuni trucchi da usare a seconda dell’età: “Con i più piccoli, abbassatevi alla loro altezza e guardateli negli occhi, mentre gli parlate. Volendo, anche un gentile contatto fisico può aiutare. Con i bambini più grandi, il contatto visivo e l’assicurazione che vi stanno sentendo sono altrettanto importanti”, suggerisce l’esperta. Oppure, cominciate la frase chiamandoli per nome.

2) Siate concisi
Se possibile, limitatevi a una frase. Quando dovete chiedere qualcosa ai vostri figli, non eccedete in spiegazioni, perché questo potrebbe tradursi in un sovraccarico informativo e avere come conseguenza involontaria il fatto che smettano di ascoltarvi. 

3) Chiedete senza ripetere 
Una volta in cui vi siete assicurati che vi stanno sentendo, chiedete quello di cui avete bisogno, ma fatelo solo una volta e vedete cosa succede, perché i loro tempi di reazione sono più dilatati di quelli di un adulto. “È possibile che vi rispondano. Se così non fosse, chiedete una seconda volta e poi spiegate le ragioni della vostra richiesta. Questo vi aiuterà a non apparire arbitrari, a non innescare lotte di potere”, propone Reischer. Per esempio, meglio dire: “Ho bisogno che tu ti metta le scarpe, perché dobbiamo uscire a comprare il latte, prima che il negozio chiuda”, piuttosto che “Metti le scarpe, perché dobbiamo uscire”. 

4) Informate i vostri figli delle conseguenze della loro indifferenza 
Capita che siate al parco, ma vostro figlio non vuole saperne di tornare a casa e, quando lo chiamate, vi ignora. Senza che risulti una minaccia, fategli presente le conseguenze del suo comportamento. Per esempio: “Fra cinque minuti andiamo a casa. Se non vieni quando ti chiamo e ti dico che è ora di andare, domani non torniamo al parco, perché il tuo comportamento rende le cose difficili”. 

5) Se possibile, lasciate che le naturali conseguenze abbiano corso
Bagnarsi i piedi, se non si mettono gli stivali. Non avere vestiti puliti, perché dimenticati sul pavimento della stanza, invece che depositati nel cesto della biancheria. “Le conseguenze sono sempre un buon maestro: ci sono azioni che valgono più di molte parole. Soprattutto nel caso degli adolescenti, quando l’eccesso di verbalità può venire interpretato come un rimprovero”.

6) Offrite un’alternativa 
Soprattutto con i più piccoli, offrire due alternative può contribuire a metterli in moto: “Preferisci mettere prima il pigiama o lavare i denti?”. Molte volte, anche con i bambini più grandi, abbiamo la possibilità di ottenere una risposta più pronta e positiva se, invece di minacciarli, gli offriamo la possibilità di uscire dall’angolo. Così, meglio dire: “Non puoi andare al parco da solo, ma puoi andare a giocare dai vicini”, perché aiuta a mantenere il canale di comunicazione aperto ed evita l’innesco di una polemica. 

7) Controllate il vostro tono (per quanto possibile)
Infine, Reischer invita a non alzare la voce, anche quando i nostri figli sembrano assolutamente sordi alla nostra voce, perché urlare crea uno schema disfunzionale di comunicazione che tiene tutti bloccati. “Non bisogna dimenticare che i figli di genitori verbalmente aggressivi tendono ad avere un livello di autostima più basso, dimostrano alti livelli di aggressività e maggiori tassi di depressione”, conclude l’esperta.





Fonte: http://d.repubblica.it/


martedì 13 gennaio 2015

Senza telefono e Facebook non vivo più!!!



Un telefono cellulare è per sempre. La prova del nove? Anche l'ozio in spiaggia può diventare una prolungamento dell'ufficio o della vita sociale, con eccessi preoccupanti che possono trasformarsi in malattia. Nomofobia: il nome già c'è, anche se non bisogna farsi tradire dagli studi classici. La nomofobia non è la “paura delle regole”, ma una parola “portmanteau” che contiene il gioco di parole aglosassone “no-mobile” più il termine greco fobia. In altre parole, una paura di nuova generazione: quella di non avere il cellulare a portata di mano, di non poter chiamare e ricevere telefonate, di non essere liberi di wazzappare o compulsare nervosamente il video dello smartphone alla ricerca degli ultimi aggiornamenti dagli amici o dal mondo dei social network. Una condizione che due studiosi italiani, Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente dell'Università di Genova, descrivono come caratterizzata da “ansia, disagio, nervosismo e angoscia causati da essere fuori dal contatto con un un telefono cellulare o un computer”.

Emozioni negative sproporzionate rispetto alla reale situazione di pericolo personale, ma che per questo diventano patologiche al punto che Bragazzi e Del Puente hanno pubblicato un documento sulla rivista Psychology Research and Behavior nel quale, in vista delle integrazioni al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali (DSM-V) - la “bibbia” a cui si attengono psichiatri e psicologi di tutto il mondo per diagnosticare e trattare le patologie del comportamento – raccomandano l'introduzione della “nomophobia” nel novero delle nuove paure.

Nel paper, Bragazzi e Del Puente descrivono questa fobia a due facce: da una parte può essere utilizzata come “un guscio protettivo o uno scudo” in modo impulsivo, dall'altro “come mezzo per evitare la comunicazione sociale”. Si tratta di un paradosso che interessa le nuove tecnologie della comunicazione già noto alla psichiatria. Ma come si riconosce un malato di nomofobia? Ecco alcuni comportamenti sono a rischio:

- Usare regolarmente il telefono cellulare e trascorrere molto tempo su di esso, avere uno o più dispositivi, portare sempre un caricabatterie con se stessi;
- Sentirsi ansioso e nervoso al pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è disponibile nelle vicinanze o non viene trovato o non può essere utilizzato a causa della mancanza di campo, perché la batteria è esaurita e/o c'è mancanza di credito, o quando si cerca di evitare per quanto possibile, i luoghi e le situazioni in cui è vietato l'uso del dispositivo (come il trasporto pubblico, ristoranti, teatri e aeroporti).
- Guardare lo schermo del telefono per vedere se sono stati riceuti messaggi o chiamate. Si tratta di un disturbo che è stato definito "ringxiety", mettendo insieme la parola “squillo” in inglese e la parola ansia.
- Mantenere il telefono cellulare acceso sempre (24 ore al giorno); dormire con cellulare o tablet a letto.

I ricercatori, che raccomandano di evitare di considerare tutti i comportamenti patologici (pochi si salverebbero dalla diagnosi), citano uno studio relativo a un uomo brasiliano che per 15 anni ha tenuto il suo cellulare sempre con lui schiacciato dal terrore di non essere in grado di chiamare i servizi di emergenza o le persone care nel caso si fosse sentito male. "È innegabile - commentano i ricercatori - che la tecnologia attraverso i social media, I social network, l'informatica sociale e i "social software" ci permette di svolgere il nostro lavoro più velocemente e con efficienza, ed è anche vero che interventi grazie al telefono sono un aiuto medico utile. D'altra parte, i dispositivi mobili possono avere un impatto pericoloso per la salute umana". 





Fonte: http://d.repubblica.it/benessere

venerdì 9 gennaio 2015

Come fare ad amarsi di più...





Quando lasciamo decidere agli altri, concediamo loro la priorità mettendoci in un angolo, diamo spazio alle loro esigenze, li assecondiamo, accettiamo e facilitiamo per non creare disaccordi, malumori, complicazioni. Quando evitiamo di discutere, di non trovarsi d’accordo per paura di perdere stima, interesse, amore. Quando partecipiamo con distacco a situazioni che ci riguardano da vicino, non ci esponiamo dicendo cosa pensiamo veramente perché poi può non volermi più, posso non essergli più simpatica, interessante. Quando facciamo posto alle persone che ci sono vicine e poco a noi stesse, ci facciamo in quattro per gli altri perché una brava moglie, madre e donna deve essere disponibile, accudente, accomodante (e badante). Quando facciamo di tutto per anticipare e soddisfare i bisogni e i desideri del partner tralasciando la cura dei nostri, pur di essere accettate. Quando ci muoviamo nelle relazioni con un atteggiamento di passività, concedendo il ruolo di protagonista sempre agli altri per paura di non piacere, di essere abbandonate, di incrinare la sintonia. Quando evitiamo di prendere l’iniziativa e non manifestiamo la nostra opinione, rinunciando a noi stesse. Quando ci mostriamo sempre competenti e adeguate in tutto ciò che facciamo perché abbiamo bisogno di essere stimate e approvate sempre e da tutti. Quando ci consideriamo incapaci e inadeguate per cui ci ritroviamo a dipendere da altri o da qualcuno in particolare. Ma anche quando crediamo di potercela fare da sole, diventiamo competitive e un po’ arroganti perché bisogna fare così per farsi rispettare. Quando i nostri punti di vista non vengono considerati e ci sentiamo frustrate, impotenti e allora ci arrabbiamo, vivendo sul piede di guerra. Quando sgomitiamo per farci sentire, cerchiamo di imporci, di conquistare potere alzando la voce, illudendoci di avere tutto sotto controllo. Quando, pur attraverso modalità competitive e aggressive, si dipende dall’accettazione e dal giudizio degli altri. In tutti questi casi non siamo assertive. 

Esserlo significa uscire allo scoperto, imparare ad amarsi, mettersi al centro del proprio mondo per riuscire a dare un contributo alle relazioni, senza prevaricare gli altri o soffocare se stesse. Avere il coraggio di essere chi siamo, semplicemente. Poter costruire rapporti basati sulla reciprocità e autenticità e non sulla passività o aggressività. Perché non sono gli altri ad abusare di noi: semplicemente prendono il potere che lasciamo loro. Spesso siamo noi stesse a non riconoscere importanza e valore a quello che siamo e che vogliamo o ad aver bisogno di imporci per farci sentire. Sono diversi gli esperti a livello internazionale che si sono occupati di assertività. Sulla base degli studi è stato redatto, in forme diverse, un elenco di diritti assertivi, una specie di linee guida, per niente scontato anche se lo sembra, molto utile nella dimensione privata oltre che lavorativa. Perché di fatto i principi assertivi rientrano nei diritti individuali assoluti di ogni persona. 

Il decalogo che segue presenta i più importanti principi assertivi (in buona parte ricavati dalla Carta dei Diritti di M.J. Smith, “When l Say No I Feel Guilty”) da rispettare ed esercitare nella vita quotidiana, per se stesse ma ovviamente anche per gli altri:
1.    ho il diritto ad essere trattato sempre con rispetto e dignità; 
2.    ho il diritto di essere me stesso/a e di essere unico/diverso;
3.    solo io ho il diritto di giudicare i miei comportamenti, pensieri ed emozioni assumendomene la responsabilità e accettandone le conseguenze;
4.    ho il diritto di non giustificare il mio comportamento adducendo ragioni, scuse o spiegazioni; 
5.    solo io ho il diritto di decidere se occuparmi o meno dei problemi degli altri, di prendermi responsabilità al posto di chi rifiuta di prendersele; 
6.    ho il diritto di cambiare opinione, parere e modo di pensare così come di sbagliare assumendomi le responsabilità delle eventuali conseguenze;
7.    ho il diritto ad avere ed esprimere un’opinione personale non coincidente con quella altrui e ad essere ascoltato/a e preso/a sul serio;
8.    ho il diritto di rifiutare una richiesta che mi porta via troppo tempo o risorse dai miei impegni, di non soddisfare sempre le aspettative altrui, dire di no senza sentirmi in colpa;
9.    ho il diritto di chiedere ciò che ritengo opportuno nel rispetto del reciproco diritto a rifiutare;
10.  ho il diritto di dire “non capisco” a chi non mi dice chiaramente cosa si aspetta da me, di dire “non mi interessa” quando non voglio essere coinvolta in iniziative di altri, di dire “non so” quando mi si richiede una competenza che non ho.


domenica 4 gennaio 2015

Le donne sono più intelligenti degli uomini!





Si chiama “teoria del maschio idiota” e sostiene che se gli uomini hanno più spesso comportamenti rischiosi, finiscono più spesso al pronto soccorso e, una volta qui, è più probabile che muoiano rispetto alle donne è perché gli uomini sono idioti e gli idioti fanno cose stupide. A suo sostegno arriva oggi una ricerca pubblicata sul British Medical Journalda alcuni esperti dell'Institute of Cellular Medicine dell'Università di Newcastle, nel Regno Unito, che hanno cercato di verificare questa teoria utilizzando i dati sui comportamenti idioti assunti dai vincitori del Darwin Award, riconoscimento assegnato a individui che sono morti per ragioni talmente assurde da far concludere che “la loro azione assicuri la sopravvivenza a lungo termine della specie consentendo selettivamente di sopravvivere a un idiota in meno”.

Il comitato che si occupa di assegnare il premio fa una chiara distinzione fra le morti assurde e quelle accidentali. “Ad esempio – spiegano gli autori dello studio – è improbabile che i Darwin Award siano assegnati a persone che si sono sparate in testa nel tentativo di dimostrare che una pistola fosse scarica (…). Al contrario, chi si spara in testa per dimostrare che una pistola è carica è candidabile a un Darwin Award”. L'analisi condotta in questo studio ha dimostrato che tra i 318 premi assegnati dal comitato a singoli candidati tra il 1995 e il 2014 ben 282 sono stati vinti da uomini e solo 36 da donne. Detta in altri termini, l'88,7% dei vincitori dei Darwin Awards sono uomini e la differenza nel genere dei vincitori è statisticamente significativa. “Questi risultati – sottolineano gli autori – sono completamente concordi con la teoria del maschio idiota e supportano l'ipotesi secondo cui gli uomini sono idioti e gli idioti fanno cose stupide”.

I ricercatori ammettono però che questo studio ha delle limitazioni. I risultati potrebbero ad esempio essere influenzati dal fatto che le donne potrebbero essere più propense a candidare un uomo, oppure dal fatto che spesso i comportamenti assurdi degli uomini fanno più notizia rispetto a quelli delle donne. Per di più anche il consumo eccessivo di alcol, più frequente fra gli uomini, potrebbe giocare un ruolo nel determinare una maggiore incidenza di comportamenti idioti degli uomini. Per il momento, quindi, non è possibile trarre alcuna conclusione definitiva. “Crediamo che lo studio della teoria del maschio idiota meriti un ulteriore approfondimento”, concludono i ricercatori di Newcastle, promettendo di proseguire le loro ricerche sia con studi osservazionali sul campo, sia con un vero e proprio studio sperimentale. A questo punto non resta che aspettare di scoprire se l'idiota che accetterà di entrare nel gruppo dei papabili vincitori del Darwin Award sarà un uomo o una donna.





Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/

venerdì 2 gennaio 2015

Il 70% delle donne in gravidanza è depressa



Il 70% delle donne in gravidanza soffre di ansia e depressione. Il dato emerge da uno studio pubblicato sulla rivista The Scientific World Journal, secondo cui a essere maggiormente a rischio sono le donne che hanno una storia familiare di depressione o ansia o che ne hanno già sofferto in passato in prima persona. Diversi studi hanno inoltre messo in evidenza che la depressione e l’ansia durante la gestazione sono più frequenti della depressione post-partum. Ma quali sono i modi per cercare di mettere un argine a questi disturbi?
Primo: dormire bene. Trovare la giusta posizione e la giusta predisposizione – magari aiutandosi con un bagno caldo prima di andare a letto - per dormire almeno sette ore a notte. Secondo: non smettere mai di fare attività fisica. Secondo uno studio pubblicato su Psychology & Health il movimento fisico svolto con regolarità dalle donne incinte – 4 volte a settimana da 30 minuti – aiuta ad allontanare i sintomi di depressione, ansia e stanchezza. Terzo: lo yoga. Tipologie di esercizio “alternative” – come lo yoga – aiutano a distendere i muscoli e la mente. Quarto: rimanere “connessi”. In caso ci si senta depressi, è bene non isolarsi, anche se si può essere tentati di farlo. L’isolamento, infatti, non fa altro che acuire i sintomi depressivi. Quinto: trovare il giusto supporto. Parlare con un amico fidato, o con il partner di come ci si sente può aiutare a sentirsi meglio.Sesto: cercare un aiuto professionale, nel caso in cui i sintomi di ansia e depressione inizino a incidere sull’appetito e sul sonno.










Fonte; http://salute24.ilsole24ore.com/