martedì 29 dicembre 2015

Come gestire il rientro post-vacanze




Umore in picchiata. Stanchezza, sonnolenza, stress. Tornare a lavoro e agli impegni di tutti i giorni, tra le carte accumulate in ufficio e la casa e i bambini da curare è per 6 milioni gli italiani causa della sindrome da rientro.  "Fisiologicamente tendiamo a tracciare una linea tra un passato trionfale, quello del periodo vacanziero, e un futuro problematico e conflittuale, quello del rientro al lavoro. Si tratta di una linea – spiega - che va in picchiata, da un trionfo a un declino, e che rappresenta solo la nostra paura e le nostre ansie", spiega Piero Barbanti, neurologo dell'Irccs San Raffaele Pisana di Roma. Anche se, come precisa l'esperto, la post-vacation blues non è "una vera e propria patologia". 
Più che sintomi ci sono segnali. Quali? Insonnia, nervosismo, spossatezza eccessiva, ansia, leggera depressione. E ancora, mancanza di concentrazione, mente annebbiata, sentirsi schiacciati per le incombenze della ripresa lavorativa e domestica. Per contrastare sul nascere i problemi, l'esperto consiglia di seguire semplici regole, che riguardano per esempio il sonno e la dieta, cercare di ridurre e dividere i compiti su un periodo più lungo, cercare momenti rilassanti come un bagno caldo serale o il pranzo all'aperto.  

Ecco il decalogo antistress:
1) Dormire molto e bene, evitando di passare dalle 8-10 ore di sonno del periodo vacanziero alle 6-7 che ci si concede al rientro. Eventuali problemi di insonnia vanno affrontati aiutandosi con un bagno caldo la sera o con una tisana.
2) Abituarsi con gradualità, rientrando dalle vacanze alcuni giorni prima della fine delle vacanze per poter tornare senza un impatto brusco alle temperature e ai ritmi cittadini. Se possibile, anche il lavoro andrebbe ripreso gradualmente.
3) Fare movimento, soprattutto se le ferie sono state 'attive'. Fare attività fisica infatti aiuta a diminuire lo stress e a riposare meglio.
4) Seguire un'alimentazione corretta. Il cervello ha bisogno soprattutto di zucchero, perciò ben vengano, senza esagerare, i carboidrati semplici (saccarosio, miele, confetture, frutta) e quelli complessi (pane, pasta, riso e cereali). La melatonina contenuta nella buccia dei chicchi d'uva, ad esempio, può essere un valido aiuto all'umore.

5) Stare alla luce del sole. Il passaggio dalla luce del sole in spiaggia a quella artificiale dell'ufficio può mettere sotto stress il corpo e la mente. Un consiglio: fare la pausa pranzo all'aria aperta.
6) Essere ottimisti. Fare pensieri positivi aiuta a ritagliarsi degli spazi di riflessione e a spostare l'attenzione su cosa desideriamo e sulle nostre capacità.
7) Prendersi delle pause frequenti di almeno 15 minuti ogni due ore per riattivare la circolazione e riposare gli occhi.
8) Niente tecnologia a letto. Non tenere in camera da letto né computer, né cellulare, né televisione, perché il cervello potrebbe smettere di associare quella stanza al momento del sonno, considerandola alla stregua di un 'prolungamento' del salotto.
9) Dopo le vacanze, per i bambini è ancora più importante tornare al ritmo della scuola gradualmente. Occorre dare al bambino il tempo di abituarsi alle lunghe ore che trascorrerà seduto.

10) Concedersi un weekend di relax. Finché il tempo lo consente, dedicare il fine settimana al relax e alla famiglia come se le vacanze non fossero ancora finite, per ricaricarsi e iniziare al meglio la nuova settimana.


Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/







mercoledì 11 novembre 2015

Perchè confondiamo i giorni della settimana?


A giocare un ruolo fondamentale nella diffusissima tendenza a confondere i giorni infrasettimanali è l'influenza sul nostro modo di pensare sul nostro modo di pensare dell'organizzazione del tempo in settimane di 7 giorni. “Il ciclo settimanale di sette giorni si ripete per ciascuno di noi sin dalla nascita – spiega David Ellis, primo nome dello studio – e crediamo che ciò faccia sì che ciascun giorno della settimana acquisisca un suo carattere proprio”. Da questo punto di vista il lunedì e il venerdì sono risultati più fortemente caratterizzati. Ellis e colleghi hanno infatti scoperto che per gli individui coinvolti nel loro studio era più facile associare termini specifici (ad esempio “noioso” oppure “libertà”) a questi due giorni che non al martedì, al mercoledì e al giovedì, risultati più insignificanti e quindi più facilmente confondibili. Non a caso quando ai partecipanti è stato chiesto che giorno fosse la risposta corretta è stata fornita 2 volte più rapidamente quando era lunedì o venerdì rispetto a quando era mercoledì.

Le ricerche non si sono però fermate qui, ed Ellis e colleghi hanno anche scoperto che nella maggior parte dei casi quando si confonde il giorno attuale con quello precedente o con quello successivo – evenienza verificata in quasi il 40% dei partecipanti – lo si fa in uno dei 3 giorni centrali della settimana lavorativa. Non solo, il numero di errori aumenta a più del 50% dei casi nelle settimane che comprendono un giorno di vacanza; in questo caso spesso si finisce per pensare di essere un giorno indietro rispetto a quello corrente. Ciò significa che oltre al carattere tipico del giorno della settimana in cui ci si trova ad entrare in gioco è anche il passaggio dal fine settimana alle giornate lavorative.

I fattori alla base di questo fenomeno potrebbero essere anche culturali. “Un motivo dietro al fatto che in giorni di metà settimana evocano meno associazioni rispetto ad altri giorni potrebbe essere quanto poco spesso siano utilizzati nel linguaggio comune, fatto che darebbe minori possibilità per creare delle associazioni”, ipotizza a tal proposito Rob Jenkins, coautore dello studio. “Ci sono ad esempio molte canzoni pop che utilizzano lunedì o venerdì, mentre i giorni centrali della settimana sono utilizzati raramente”, continua Jenkins. Ma quali sono, dal punto di vista pratico, le implicazioni di questa curiosa scoperta? “Se in futuro – spiega l'esperto – saranno evidenziati dei legami anche con variazioni sistematiche durante la settimana di aspetti del comportamento come il rischio e la tolleranza, le conseguenze potrebbero essere significative non solo per il comportamento del singolo individuo, ma anche per valutazioni psicologiche”.


Fonte :http://salute24.ilsole24ore.com/




venerdì 25 settembre 2015

Basta poco per non procrastinare e rimandare



Se rimandare è un istinto da sempre, internet oggi ne è diventato il miglior alleato. Per evitare eccessive perdite di tempo all’epoca del web, la psicologia si è messa al lavoro, cominciando a trattare la procrastinazione come un problema sociale. Secondo l’American Psychological Association, un individuo su cinque è un “procrastinatore seriale”.

L’Economist ha calcolato che nei 140 milioni di ore che l’umanità ha passato guardando 2 miliardi di volte il video di Gangnam Style si sarebbero costruite altre quattro piramidi di Giza. L’università di Oxford, in un convegno l’anno scorso, ha riesumato la storia di Sant’Espedito, il martire che sulla croce riporta la scritta “Oggi” perché si ribellò a un corvo che lo invitava a convertirsi solo domani. E per chi non ha la forza di volontà per passare dai panni di Oblomov a quelli del santo, due esperti americani ci offrono dalle colonne di Psychological Science una ricetta che si presume infallibile.

Per costringerci a fare oggi quel che si potrebbe benissimo rimandare a domani — suggeriscono Neil Lewis dell’università del Michigan e Daphna Oyserman di quella della Southern California — basta cambiare l’unità di misura del tempo. Pensare che la prossima scadenza sarà fra 30 giorni anziché fra un mese «farà aumentare il nostro senso di impellenza ». E calcolando che non si andrà in pensione fra 30 anni, ma fra 10.950 giorni, si inizia a risparmiare con un anticipo quattro volte superiore.

Che il nostro elaborato cervello si faccia ingannare da trucchi tanto ingenui potrà sembrare incredibile, ma è confermato anche da altri esperimenti. L’anno scorso ad alcuni studenti fu chiesto di completare una ricerca in cinque giorni. Ma quelli che avevano come termine il 29 aprile hanno rispettato meglio l’impegno di quelli la cui scadenza cadeva il 2 maggio, nel mese successivo. La spiegazione, secondo i due psicologi americani, affonda in una duplice personalità che alberga in ciascuno di noi: il “me presente” e il “me futuro”. Il primo, che si occupa dell’oggi, finisce per assumere un ruolo di comando sul secondo. Spezzettare l’unità di misura del tempo, spiegano Lewis e Oyserman, serve a ridurre la dicotomia fra presente e futuro, e quindi a riavvicinare le due personalità. «Per agire con efficienza — scrivono i due ricercatori americani — il futuro deve sembrare imminente ».

Per due psicologi che ci invitano a sbrigarci, altri due suggeriscono di aspettare un attimo. Alla fine di giugno, alias undici giorni fa, David Rosenbaum dell’università della Pennsylvania ed Edward Wasserman di quella dello Iowa hanno scritto su Scientific American che la pre-crastinazione è altrettanto dannosa della pro-crastinazione. La tendenza a spedire una mail importante senza ponderarne il contenuto o a pagare le tasse subito anziché aspettare la scadenza solo per il bisogno di levarsi il pensiero è, scrivono i due docenti, «un altro sintomo delle nostre vite vissute sempre di corsa».

A conciliare le tesi antitetiche dei due gruppi di psicologi è per fortuna arrivato un filosofo. John Perry della Stanford University. Autore del blog
Structured procrastination , ci invita a escogitare un compito veramente arduo, ma falso, e poi a rimandarlo facendo quel che dovremmo veramente fare. «Fare meno, ingannare se stessi, ma avere lo stesso successo » è la summa della sua filosofia.



Fonte: http://m.repubblica.it


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Di Venanzio Psicologo Pescara

domenica 23 agosto 2015

Le preoccupazioni ed i conflitti accorciano la vita






Quando rappresentano un punto di appoggio e un supporto psicologico famigliari e amici aiutano a proteggere la salute, ma se i rapporti con le persone che ci circondano sono costellati da conflitti, preoccupazioni  e pretese di attenzione gli effetti sono totalmente opposti. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health dai ricercatori dell'Università di Copenhagen vivere relazioni problematiche potrebbe addirittura accorciare la vita. “I conflitti, in particolare, sono associati a un rischio di mortalità più elevato, indipendentemente da chi è la fonte del conflitto – spiegano i ricercatori – Le preoccupazioni e le pretese di attenzione sono associate al rischio di mortalità solo se dipendono dal partner o dai bambini”.

La ricerca ha incluso quasi 10 mila individui che all'inizio delle analisi avevano un'età compresa tra i 30 e i 60 anni. Negli 11 anni successivi i ricercatori hanno valutato chi tra partner, figli, parenti, amici e vicini rappresentasse una fonte di stress per i partecipanti. Non solo, gli autori hanno esaminato anche il livello di supporto psicologico a loro disposizione e l'eventuale presenza di sintomi della depressione. Ne è emerso che le preoccupazioni associate al rapporto con il partner raddoppiano il rischio di morire, mentre quelle associate ai figli l'aumentano del 50% circa. Non solo, il rischio di vivere una vita più breve aumenta anche quando i conflitti sono frequenti. In particolare, avere un rapporto conflittuale con il partner o gli amici porta a più che raddoppiare il rischio di decesso, mentre se i conflitti sono vissuti con i vicini il rischio viene più che triplicato. La situazione è ancora peggiore nel caso di chi è senza lavoro. Vivere rapporti conflittuali e caratterizzati da preoccupazioni ed essere allo stesso tempo disoccupati porta infatti a correre un rischio di morire pari a circa 4,5 volte quello tipico di una persona che non ha problemi di questo tipo. Le motivazioni che possono portare al decesso sono molto diverse fra loro. Quasi il 50% delle morti registrate durante lo studio sono state infatti associate a un cancro, ma altri decessi sono stati causati da malattie cardiovascolari, patologie epatiche, incidenti o suicidi. 

                                                                                    
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Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/

mercoledì 8 luglio 2015

Chi pensa molto è più intelligente

O

Vi accusano da sempre di essere troppo pensierosi e costantemente in riflessione?
Non offendetevi e preparatevi alla riscossa: un recente studio condotto Lakehead University nello stato dell’Ontario dimostra che i “ruminatori mentali” sono mediamente più intelligenti di chi vive in pace con se stesso e tiene a bada le proprie emozioni. Perciò, non serve reprimere la propria naturale propensione a rimuginare per il timore che qualcuno ci additi come noiosi e pesanti.


I ricercatori hanno esaminato 126 giovani che sono stati sottoposti a test di intelligenza e a diversi questionari e prove che ne tracciavano i livelli di ansia, depressione, timidezza, paura. Si tratta di comportamenti che scatenano una iperattivazione delle facoltà cognitive e spesso portano chi ne soffre a provare sentimenti negativi. Dai risultati si è visto che al salire di preoccupazioni e ruminazione, aumentavano anche i livelli e i risultati nei test di intelligenza verbale.
Attenzione, però, a non esagerare non tanto per timore del giudizio altrui ma per se stessi. Pensare troppo e focalizzarsi su scenari negativi a lungo termine fa diminuire le difese immunitarie e ci rende più esposti alle malattie. Perciò, approfittiamo della bella stagione per uscire all’aria aperta e spegnere il cervello o almeno sintonizzarlo sul bello della natura.






Fonte:repubblica.it

mercoledì 3 giugno 2015

L'amicizia tra uomo e donna non può esistere



La scienza dimostra perchè sembra impossibile per uomini e donne essere “Solo amici” Si tratta di una delle domande più antiche che perseguitano l’uomo (e la donna): esiste l’amicizia tra uomo e donna, o ci sarà sempre dell’attrazione? Come riportato da Science.Mic, un nuovo studio dell’Evolutionary Psychology journal presenta interessanti novità per i fautori dell’impossibilità dell’amicizia tra uomo e donna. La ricerca, condotta in Normandia, ha scoperto che uomini e donne fondamentalmente si fraintendono: lei interpreta i suoi segnali d’interesse sessuale come amicizia mentre lui legge i suoi segnali d’amicizia come interesse sessuale.
Può suonare stereotipato, ma gli uomini hanno in testa il sesso. I ricercatori della Norwegian University of Science and Technology hanno intervistato 308 laureandi tra i 18 e i 30 anni chiedendogli delle proprie amicizie, attrazioni sessuali e delle esperienze che hanno avuto con l’errata lettura dei segnali inviati dall’altro sesso.
Il risultato è stato che gli uomini comunemente sopravvalutano l’interesse sessuale proveniente dalle donne: le intervistate sono state fraintese dagli amici maschi in media 3.4 volte nello scorso anno. D’altro canto le donne sottovalutano l’interesse sessuale maschile, seppure in maniera spiccatamente inferiore.
La ricerca è in linea con gli studi precedenti: nel 2009 la Pacific and Asian Communication Association ha osservato che gli uomini trovano le donne più seducenti, promiscue e civettuole rispetto alla visione degli uomini della controparte femminile.
Dietro la tendenza maschile a sopravvalutare i segnali sessuali potrebbe esserci l’evoluzione. I ricercatori norvegesi hanno ipotizzato che gli uomini sopravvalutino l’interesse sessuale al fine di minimizzare gli “errori” nella scelta del partner; quando si tratta di selezione naturale la capacità dell’uomo di riprodursi è di primaria importanza, quindi non può lasciarsi sfuggire occasioni.

I sentimenti non ricambiati sono comuni: uno studio del 2012 di Adrian F. Ward, del Department of Psychology di Harvard, ha scoperto che per gli uomini è più facile essere attratti dalle proprie amiche di quanto non sia per loro. Come negli studi più recenti, era più facile che pensassero che le loro amiche fossero attratte da loro anche quando ciò non era vero. D’altro canto, Scientific American ha sottolineato che “Anche le donne ignorano la mentalià degli amici di sesso opposto; questo perchè le donne normalmente non sono attratte dai propri amici maschi e presumono che questa mancanza d’attrazione sia reciproca”.
Qui che le cose diventano imbarazzanti: quando uomini e donne non riescono a comprendersi, le cose possono farsi strane. Questo non significa che l’amicizia sia impossibile: gli studi non hanno esaminato se queste incomprensioni possano ostacolare l’amicizia.

Tuttavia, i ricercatori hanno preso in considerazione quanto i fraintendimenti possano contribuire alle molestie sessuali. “Una donna che ride alle tue battute, ti sta vicina o tocca il tuo braccio a una festa non è necessariamente sessualmente interessata, anche se pensi sia così” ha tenuto a ricordare Mons Bendixen, capo della ricerca.
Ma è chiaro che fraintendere l’interesse sessuale di un amico può compromettere un’amicizia uomo-donna. Dopotutto, a Harry e Sally sono occorsi anni di stress e separazioni per capire davvero come stavano le cose (ed è solo perchè si trattava di una commedia romantica che gli è stato garantito l’happy ending!)
Detto ciò, segnali mal interpretati o meno, le amicizie tra persone del sesso opposto esistono, oggi più che mai. Secondo il sociologo Micheal Kimmel, per le nuove generazioni è molto più semplice vedere l’amicizia uomo-donna come una cosa normale. Inoltre, c’è ragione di pensare che avere più amici maschi può aiutare le donne etero a fare più sesso – il che potrebbe rendere qualsiasi imbarazzo un rischio trascurabile.

Fonte: http://www.huffingtonpost.it




mercoledì 13 maggio 2015

Esperienza extracorporea, come risponde il nostro cervello??



Si dice che l'uomo abbia la percezione di essere fisicamente laddove sono i suoi occhi. Ma in alcune situazioni particolari – in fasi di profonda meditazione, nel caso di incidenti dal forte impatto o di forti traumi, o di assunzione di stupefacenti – capita che i pazienti dichiarino di aver vissuto delle OBE, out of body experience, ovvero esperienze al di fuori del proprio corpo. Vi è tutto un filone di ricerca, tra scienza e medicina, che indaga su questo tipo di esperienze e lo studio più recente è quello appena pubblicato su Current Biology, svolto dai ricercatori del Karolinska Instituttet di Solna, in Svezia. Gli studiosi svedesi hanno preso un campione di quindici persone e hanno misurato quel che accadeva nei loro cervelli mentre erano proiettati in un'esperienza guidata extracorporea. Un compito davvero complicato per il cervello, che deve continuamente elaborare informazioni diverse e calibrare la comunicazione tra i diversi sensi per allocarsi nello spazio e riconoscere la posizione del corpo rispetto alla realtà che lo circonda.
Il teletrasporto: come hanno operato i neuroscienziati
I quindici partecipanti alla prova indossavano schermi collegati ai loro occhi sui quali potevano vedere immagini esterne. Erano inoltre inseriti, coricati, in un macchinario che eseguiva la scansione della loro attività cerebrale. Nel display montato sulla loro testa, i partecipanti potevano vedere se stessi da un'altra angolatura della stanza dove erano collocati. Non solo vedevano il loro corpo, supino, davanti a loro, ma in un angolo della stessa stanza potevano osservare sullo schermo anche un secondo corpo, di un estraneo, coricato esattamente nella stessa posizione. Per creare l'illusione di essere altrove, i ricercatori toccavano il corpo dei partecipanti all'esperimento con alcuni oggetti (mestoli, cucchiai di legno e così via) facendolo sincronicamente sia a loro, sia all'estraneo di turno. Dunque la cavia poteva vedere, mentre lo viveva su di sé, anche un'altra persona subire il suo stesso trattamento. 
Cosa accade al cervello nell’esperienza «extracorpo»
Bastano pochi istanti e il cervello del partecipante avverte la sensazione di essere toccato come se si trovasse dall'altra parte della stanza: ovvero, sente di essere nel corpo dell'estraneo che sta vivendo la sua stessa esperienza poco lontano. Sente, nello specifico, di trovarsi proprio nella posizione esatta in cui è posizionato l'altro, vivendo dunque una esperienza extracorporea: il suo corpo è sempre lì, ma il cervello è convinto di essere altrove. Per capire come il cervello si muove e reagisce se sollecitato in un'esperienza di questo tipo, i ricercatori hanno analizzato i risultati registrati dallo scanner cerebrale in cui erano posizionati i partecipanti. Hanno così potuto confermare ciò che si era evidenziato in studi precedenti svolti però unicamente sul cervello dei topi: vi è un lavoro intenso nei lobi temporale e parietale del cervello per cercare di decodificare la propria posizione e questo scambio fa presupporre che esista una sorta di GPS all'interno di queste aree che segnala la propria posizione, per esempio, all'interno di una stanza. 



Fonte: http:///www.corriere.it/










venerdì 8 maggio 2015

Rischia chi ha l'amigdala più grande





Accettare le sfide del destino? Buttarsi nella mischia o aspettare pazienti sul bordo del fiume? Atteggiamenti agli antipodi che potrebbero avere basi biologiche precise e che influenzano le azioni quotidiane e quelle straordinarie di tutti: comprare un auto, accettare un incarico, fare un investimento finanziario, scommettere una certa sommetta. I ricercatori dell’Università Vita-Salute San Raffaele, in uno studio pubblicato sul Journal of Neuroscience, finanziato dalla Fondazione Cariplo e da Schroders Italy SIM, mostrano che è l’amigdala, il centro neurale della paura e dell’ansia, a fare da “centralina” per l’esagerata anticipazione del dolore conseguente alle possibili perdite derivanti da una scelta.  

Cos'è l'amigdala - L’amigdala è una struttura cerebrale posta nella profondità di ciascuno dei due emisferi cerebrali, essenziale per le capacità di apprendere i pericoli intorno a noi, di riconoscerli e preparare l’organismo ad una risposta adeguata, ad esempio “combatti o scappa”. Prendere decisioni implica la capacità di prevedere le conseguenze positive e negative di ogni possibile scelta. Questo consente di soppesarle attentamente, per arrivare a selezionare quella che riteniamo più vantaggiosa.

Le teorie - Come dimostrato dagli studi del Premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman, però, in questo processo di anticipazione mentale le possibili perdite “pesano” tipicamente più dei guadagni. Nelle nostre scelte, cioè, preferiamo evitare le perdite all’ottenere guadagni, almeno finché il possibile guadagno non è pari a circa il doppio della possibile perdita. Questo fenomeno, noto come “avversione alle perdite”, secondo gli esperti sta contribuendo ad aggravare l’attuale crisi economica.    

Lo studio - Durante l’esperimento ai volontari è stato chiesto di accettare o rifiutare una serie di scommesse che, come succede quando si gioca a “testa o croce”, avrebbero consentito di vincere o perdere dei punti con probabilità pari al 50%. Le possibili vincite e perdite variavano di volta in volta: a volte erano entrambe grandi, a volte entrambe piccole, a volte molto diverse tra loro. In alcuni casi la possibile vincita era circa il doppio della possibile perdita, ovvero la tipica situazione in cui emerge un conflitto tra accettare, assumendosi il rischio della scommessa, o rifiutare, garantendosi la sicurezza di rimanere fermi al punto di partenza.  

Cosa cambia - Il sistema dopaminergico, un insieme di strutture del cervello che si parlano tra loro utilizzando come mediatore la dopamina, si attiva quando anticipiamo i guadagni e si disattiva quando anticipiamo le perdite. Un altro sistema emotivo, centrato sull’amigdala, si attiva per le perdite e si disattiva per i guadagni. Ma, a parità di somma in gioco, le risposte associate alle perdite sono generalmente più intense di quelle associate alle vincite.

Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/




giovedì 16 aprile 2015

Figli poco studiosi? Colpa del DNA



Se bambini e ragazzi sono poco motivati nei confronti della scuola è colpa anche del loro Dna. Uno studio pubblicato sulla rivista Personality and Individual Differences ha infatti dimostrato che una percentuale variabile tra il 40 e il 50% delle differenze nella motivazione scolastica dei ragazzi dipende dai geni.

Per arrivare a questa conclusione gli autori dello studio, guidati dalla ricercatrice del Dipartimento di Psicologia della Goldsmiths University of London Yulia Kovas, hanno raccolto informazioni riguardanti più di 13 mila gemelli di età compresa tra i 9 e i 16 anni. Tutti i partecipanti hanno compilato questionari appositamente pensati per la ricerca, e gli autori hanno confrontato le risposte fornite dai fratelli, partendo dal presupposto che tanto più sarebbero state simili le risposte dei gemelli identici – che condividono tutto il loro patrimonio genetico – tanto più forte sarebbe stata l'indicazione dell'esistenza di un'influenza dei geni sull'oggetto della risposta.

Ne è emerso che fattori genetici possono giocare un ruolo fondamentale nella scarsa motivazione dei ragazzi allo studio, tanto fondamentale da superare quello dei fattori ambientali. “Abbiamo scoperto che ci sono differenze nella personalità che gli individui ereditano che esercitano un forte impatto sulla motivazione”, spiega Stephen Petrill, coautore dello studio, sottolineando che nei 6 diversi paesi in cui è stato condotto lo studio (Regno Unito, Canada, Giappone, Germani, Russia e Stati Uniti) sono stati ottenuti risultati piuttosto simili nonostante le differenze sia a livello culturale che a livello di sistemi scolastici.

Petrill sottolinea però anche come ciò non significhi che ci sia un gene che stabilisce se a un bambino piacerà andare a scuola oppure no. La scoperta non significa nemmeno che genitori e insegnanti non giochino nessun ruolo nella motivazione dei ragazzi. “Dobbiamo assolutamente incoraggiare gli studenti e motivarli in aula – conclude infatti il ricercatore, docente di psicologia all'Ohio State University – Ma questi risultati suggeriscono che i motivi per cui dobbiamo farlo potrebbero essere più complicati rispetto a quanto pensassimo”.




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lunedì 13 aprile 2015

I pettegolezzi aiutano a far carriera




Un`arma affilatissima: il pettegolezzo sul posto di lavoro è uno strumento per mettere in cattiva luce i colleghi agli occhi dei superiori. Ed è tanto più efficace, a differenza di ciò che comunemente si pensa, se le affermazioni negative vengono effettuate durante le riunioni formali di lavoro, piuttosto che durante i momenti informali in cui spesso impiegati e superiori si trovano a condividere pause caffè o pause pranzo al di fuori dei loro ruoli. A sostenerlo uno studio condotto dall`Indiana University (Stati Uniti) e pubblicato su Journal of Contemporary Ethnography.
Dall`analisi di 13 incontri formali di lavoro durati 40 minuti l`uno è emerso infatti che il chicchiericcio negativo nei confronti degli assenti era più sottile e indiretto - sul genere "chi ha orecchie per intendere intenda" - e persisteva nel tempo, risultando più efficace, mentre nelle situazioni informali le note negative a carico dei colleghi venivano espresse in maniera più diretta e duravano meno, risultando meno convincenti.

                                                      
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venerdì 3 aprile 2015

Gli ansiosi sono più intelligenti




Pensare troppo, rimuginare, sentirsi in apprensione e preoccupati per gli eventi passati, in corso e futuri, sono elementi comuni a chi vive in un continuo stato di ansia. Nonostante questi comportamenti abbiano spesso una connotazione negativa e vengano vissuti con intenso malessere da parte di chi li vive e di chi vi sta intorno, una ricerca psicologica svolta in Canada su di un gruppo di studenti ha scoperto che i grandi “ruminatori mentali” sono in realtà mediamente più intelligenti di chi vive in pace con se stesso e tiene a bada le proprie emozioni. L’intelligenza coinvolta è quella linguistico-verbale, ovvero la capacità di parlare e scrivere con facilità usando i giusti termini, saper spiegare e convincere, insegnare e avere padronanza di sintassi e uso pratico della lingua, qualità spesso accompagnate da un uso umoristico delle parole.
 
Facoltà cognitive iperattive e sentimenti negativi
Lo studio è partito da un gruppo di studenti canadesi, messi alla prova dai ricercatori della Lakehead University nello stato dell’Ontario. I 126 giovani sono stati sottoposti a test di intelligenza, e a diversi questionari e prove che ne tracciavano i livelli di ansia, depressione, timidezza, paura, rimuginìo (la tendenza a ripensare ossessivamente alle situazioni passate) e ruminazione mentale (ancora una volta un pensiero ossessivo, ma rivolto agli eventi futuri). Si tratta di comportamenti che scatenano una iperattivazione delle facoltà cognitive e spesso portano chi ne soffre a provare sentimenti negativi. I risultati degli studiosi sono stati chiari: al salire di preoccupazioni e ruminazione, aumentavano però anche i livelli e i risultati nei test di intelligenza verbale. Lo stesso legame è stato collegato anche alla depressione: chi mostrava segni conclamati di tale patologia psicologica, aveva ancora una volta ottimi risultati nei test intellettivi legati alla lingua.
 
Una ossessione trasformata in abilità ancestrale
Per i ricercatori, esiste dunque una visione positiva delle ansie tipiche di chi pensa troppo, ed è quella che passa proprio dalla loro intelligenza, che li porterebbe a una maggiore abilità di analisi rispetto agli altri, come spiega alla rivista scientifica Personality and Individual Differences uno di loro: “È possibile che gli individui con una maggiore intelligenza linguistico-verbale siano più abili nell’analizzare gli eventi presenti e futuri nel dettaglio e che proprio questa loro caratteristica li esponga a rimuginìo e ruminazione”. In più, commentano ancora gli studiosi, dietro a questi comportamenti vi sarebbe anche una motivazione ancestrale: è proprio questo tipo di approccio ad aver permesso in un certo senso ai nostri avi di sopravvivere, anticipando i pericoli grazie alla sensazione di apprensione e preoccupazione. La tendenza all’ansia e a sovraesporsi ai pensieri negativi e ripetitivi va però controllata: nel lungo periodo, spiegano ancora i ricercatori, tali comportamenti possono portare a un abbassamento delle difese immunitarie esponendo maggiormente chi ne soffre alle malattie.



Fonte: http://www.corriere.it/

venerdì 27 marzo 2015

Gli Omega-3 si prendono cura del nostro cervello




L'insieme dei dati raccolti nel corso di molti anni di sperimentazioni ha portato ad ipotizzare che un consumo irregolare di Omega-3 e un alterato metabolismo degli acidi grassi essenziali (Omega-3 e Omega-6) potrebbero contribuire allo sviluppo delle principali forme di depressione conosciute.
Non solo, diversi studi suggeriscono che gli Omega-3 potrebbero essere utili nel trattamento dei sintomi della depressione.
I primi indizi dell'esistenza di un legame tra la funzione svolta da questi acidi grassi nell'organismo umano e questa patologia risalgono agli scorsi anni Novanta, quando una serie di ricerche ha dimostrato l'esistenza di una stretta correlazione tra stati depressivi e bassi livelli di Omega-3.
Infatti, in chi soffre di depressione le riserve di questi acidi grassi sono meno abbondanti rispetto alla norma.
In particolare, uno studio condotto al Base Hospital di Rockhampton (Australia), pubblicato dalla rivista Lipids, ha dimostrato che tanto più queste riserve sono scarse, tanto più i sintomi della depressione sono gravi.
Secondo una ricerca pubblicata nel 1998 da Biological Psychiatry, un'alterazione del rapporto da acidi grassi Omega-3 e Omega-6 e una minore quantità di Omega-3 nel plasma del sangue è associata a forme gravi di depressione.
Negli anni successivi un ulteriore studio ha dimostrato che nella terza età la composizione in acidi grassi dei fosfolipidi nel sangue è strettamente correlata a disordini dell'umore e a potenziali stati depressivi.
Ma i primi a dimostrare la reale efficacia degli Omega-3 nel miglioramento dell'equilibrio emotivo sono stati i ricercatori della Harvard Medical School di Boston (Stati Uniti).
Qui Andrew Stoll e colleghi stavano cercando un metodo per la cura della sindrome bipolare, detta anche sindrome maniaco-depressiva, un particolare disturbo in cui gravi crisi depressive si alternano a periodi di euforia intensa.
I risultati dello studio che pubblicarono negli Archives of General Psychiatry li portarono a concludere che gli Omega-3 possono migliorare tutta una serie di sintomi caratteristici della depressione:
tristezza
mancanza di energie
stati ansiosi
insonnia
diminuzione della libido
tendenza al suicidio

Infine, l'efficacia degli Omega-3 è stata estesa anche alla cura dei disturbi della sfera psicologica tipici di donne che, a causa di un umore mutevole ed emozioni spesso incontrollabili, avevano relazioni affettive complicate.
Gli esperti del McLean Hospital di Belmont (Stati Uniti) hanno dimostrato che 8 settimane di trattamento con integratori alimentari a base di Omega-3 ricchi in EPA erano sufficienti a rendere l'umore di queste pazienti più stabile e tendenzialmente più positivo.
Non solo: il trattamento riduceva anche l'aggressività delle donne che stavano assumendo gli Omega-3.
L'insieme dei dati raccolti nel corso degli anni dimostra che gli acidi grassi Omega-3 possono essere efficaci in prevenzione, controllo e trattamento di diversi disturbi psichiatrici.
Questi possono variare dalle semplici alterazioni dell'umore agli stati depressivi post partum, passando per i comportamenti aggressivi indotti dallo stress, i danni neurologici e le alterazioni della vista causati dall'alcol, fino ad arrivare a patologie gravi come la schizofrenia e la demenza.
Fonte: http://www.omegor.com/