mercoledì 15 novembre 2017

A cosa serve la rabbia?


È l’emozione che ci spinge a compiere gesti rischiosi. Ma anche quella che ci serve per raggiungere ciò che desideriamo. Per esempio nel mondo del lavoro.
Sguardo feroce, denti stretti e labbra serrate. È il volto della rabbia, considerata, in genere, un sentimento estremo e negativo perché ci fa perdere l’autocontrollo: ci fa dire frasi cattive e offensive al partner o al collega di lavoro o, peggio, ci spinge a compiere gesti pericolosi per noi stessi e per chi abbiamo di fronte.
Arrabbiarsi è piuttosto facile: in famiglia, nei luoghi di lavoro, sui mezzi pubblici. Soprattutto nel traffico.
ISTINTO ANIMALE. Come gli altri animali che diventano aggressivi se si sentono in pericolo o competono per difendere il loro territorio, anche noi ci arrabbiamo se ci sentiamo minacciati (ad esempio, nella nostra autostima). Oppure se percepiamo un’ingiustizia o una frustrazione dei nostri bisogni (come quando ci viene negato qualcosa). Ma cosa rende alcuni individui più insofferenti di altri?
«Chi si arrabbia di più tende a interpretare gli eventi come negativi per se stesso. Per esempio, se temo che gli altri mi manchino di rispetto posso leggere un sorriso come segno di irrisione anche se non vi erano intenzioni provocatorie», spiega Paolo Meazzini, direttore della Psicoterapia training school di Roma e autore del libro L’ira di Achille(Giunti).
«Ciò determina un aumento del livello di attivazione psicofisiologica che predispone all’attacco». Alcuni, però, riescono a controllarsi lo stesso. Perché? Dipende dalla gerarchia degli scopi della persona. «Quando c’è un conflitto fra lo scopo della rabbia (per esempio rispondere a una provocazione) e uno scopo sovraordinato (per esempio mantenere un’immagine di sé di persona pacata) ci si contiene», spiega Olimpia Matarazzo, docente di psicologia generale alla Seconda Università degli studi di Napoli e coautrice del libro La regolazione delle emozioni(Il Mulino).
Se non esprimere la rabbia è una priorità, la si prova anche in modo meno dirompente. «Ma la scelta tra gli scopi avviene in genere in modo inconsapevole per lo stesso meccanismo automatico che a volte ci porta a scegliere un piacere immediato, ignorando le sue conseguenze a lungo termine», precisa Matarazzo. Proprio come si cade in preda alla rabbia anche quando razionalmente si sa che si sta facendo la cosa sbagliata. «Significa che lo scopo più alto, cioè evitare svantaggi futuri, non è stato interiorizzato».
UN MUSCOLO DA ALLENARE. I muscoli, per funzionare bene ed essere potenti, vanno allenati. Per l’autocontrollo è lo stesso: si può rinforzare. Baumeister lo ha verificato con diversi esperimenti chiedendo a volontari di modificare il loro comportamento per due settimane. In alcuni studi, si trattava del loro modo di parlare: dovevano esprimersi in maniera corretta ed evitare forme gergali. In altri, il compito era migliorare la propria postura in piedi e da seduti.
Trascorsi i 15 giorni, l’autocontrollo era aumentato su tutta la linea: i partecipanti erano cioè più resistenti alle frustrazioni e alle tentazioni. Questi risultati lasciano supporre che, esercitandosi, il carattere si rinforzi. «Se si dà alle persone aggressive l’opportunità di migliorare il loro autocontrollo, risultano presto meno impulsive», conferma Thomas Denson, psicologo dell’Università del New South Wales (Australia), anche lui coordinatore di esperimenti affini a quelli di Baumeister.
In una delle sue ricerche, infatti, ha chiesto a un campione di studenti di usare solo la mano non dominante per due settimane: «Per muovere il mouse, mescolare il caffè, aprire le porte: ciò richiede autocontrollo perché va contro il proprio istinto», spiega Denson. Poi, si è messa alla prova la loro aggressività: potevano “punire” una persona che li aveva insultati con un’esplosione di rumore decidendo volume e durata del suono. Chi aveva fatto il training della mano fu molto più clemente.
STRESSATI. Tuttavia, anche se si può rinforzare con l’allenamento, l’autocontrollo risente dello stress. Questo perché funziona come una riserva limitata di energia, che si consuma e che deve essere rigenerata. Così, se la nostra forza di volontà è già stata messa alla prova (ad esempio, dopo un periodo di superlavoro per rispettare una scadenza), diventa difficile restare padroni di sé e non resistere a qualche tentazione.
Lo dimostra anche uno studio della Monmouth University (Usa) su persone sentimentalmente impegnate: coloro a cui era stato vietato dagli sperimentatori di mangiare dei biscotti appena sfornati, subito dopo erano più inclini a flirtare via chat con uno sconosciuto. Dover resistere ai dolci aveva indebolito il loro autocontrollo. Quando le proprie risorse sono esaurite si diventa anche più aggressivi. È stato dimostrato che, dopo una giornata pesante, si è più suscettibili alle critiche del partner e più insofferenti ai suoi difetti: mandarsi al diavolo, in questi casi, è un attimo!
NON ESAGERARE. Eppure non si può, e non si deve, rinunciare del tutto alla spontaneità. Le persone fredde e impassibili perdono ogni naturalezza, con conseguenze, anche in questo caso, sulla loro vita sociale: «Se non si inviano segnali di ciò che si prova, non c’è scambio emotivo e le relazioni ne risentono. Diventa più difficile, per esempio, creare legami di amicizia», dice Meazzini. È vero che molto dipende anche dalla propria cultura (si pensi al famoso aplomb inglese e alla proverbiale riservatezza giapponese), ma in generale l’impenetrabilità tiene lontani gli altri.
E allora, nel caso della rabbia, come va gestita? Dipende. Lo psicologo James Averill del-l’Università del Massachusetts (Usa) ne ha individuati tre tipi. La prima è la rabbia “malevola” che esprime disprezzo o desiderio di vendetta; la seconda è di “sfogo”, scarica una tensione, spesso su chi non ha colpa. C’è poi una rabbia “costruttiva”, quella che fa valere le proprie ragioni, comunica coinvolgimento e rafforza le relazioni (per esempio, se è rivolta a un amico gli fa capire che è importante per noi). Ecco, questa forse è la rabbia giusta, per la quale ogni tanto si può anche perdere il controllo.
RABBIA BUONA. C’è anche un’altra rabbia “positiva”, quella che ci aiuta a reagire e a uscire dai guai. È l’emozione che nell’evoluzione ha aiutato i nostri antenati a difendere se stessi e la prole dalle minacce dell’ambiente e che, a differenza della paura, li spingeva all’attacco e non alla fuga.
È anche la stessa rabbia positiva che nella vita di tutti i giorni ci dà l’energia per abbattere l’ostacolo che ci impedisce di realizzare un bisogno o un desiderio: scatta in noi quando ci sentiamo defraudati di qualcosa, o quando non accettiamo un’ingiustizia. Insomma, senza questa “energia rabbiosa” non avremmo la forza necessaria per affermare i nostri valori e far valere i nostri diritti. Anche, per esempio, nel mondo del lavoro.
SI CHIAMA LIGET. Esiste infatti quell’energia rabbiosa che ci fa perdere le staffe, ma che ci spinge a lavorare di più: è una rabbia associata a un senso di ottimismo e di vitalità. Tra gli ilongot, tribù di cacciatori di teste che vivono nelle giungle della Nueva Vizcaya, nelle Filippine, la chiamano liget. Negli anni Ottanta, l’antropologa americana Michelle Rosaldo la portò alla conoscenza dei lettori occidentali. «Se non fosse per il liget – dicevano gli ilongot a Rosaldo – non avremmo una vita e non lavoreremmo mai».
fonte: www.focus.it
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martedì 29 agosto 2017

L'intestino forse la causa dell'ansia..





Ansiosi? La chiave potrebbe stare nei batteri dell'intestino. È stato infatti rilevato un legame tra alcuni regolatori dei geni nel cervello (detti microRNA), che giocano in ruolo chiave nell'ansia e in malattie correlate, e i batteri intestinali. È quanto emerge da uno studio dell'Università di Cork, in Irlanda, pubblicato sulla rivista Microbiome. Gli studiosi hanno preso in esame dei topi, scoprendo che i microRNA cambiavano negli animali liberi da microbi. Questi topi erano tenuti in una bolla libera da germi e mostravano in genere ansia, deficit nella socialità e nella cognizione e comportamenti simili alla depressione. In particolare, le zone più influenzate erano l'amidgala, che gestisce le emozioni, e la corteccia prefrontale, legata fra le altre cose all'espressione della personalità, al prendere delle decisioni. Tutte e due le aree coinvolte sono implicate nello sviluppo di ansia e depressione. "I microbi intestinali sembrano influenzare i microRNA nell'amigdala e nella corteccia prefrontale- spiega Gerard Clarke, tra gli autori dello studio- questo è importante perché possono influenzare processi fisiologici fondamentali per il funzionamento del sistema nervoso centrale e in regioni del cervello (come appunto l'amigdala e la corteccia prefrontale) che sono fortemente implicate nello sviluppo di ansia e depressione.
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Fonte: www.ansa.it

mercoledì 2 agosto 2017

La dipendenza da Internet





Secondo un recente studio, pubblicato su “Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking”, il giocare eccessivo su Internet può portare, nel tempo, a livelli più bassi di Epinefrina e Norepinefrina. 

I risultati, in particolare, forniscono la prova della riduzione della regolazione automatica dello stress e l’aumento dei livelli di Ansia tra gli adolescenti con dipendenza da gioco online.    Dipendenza da gioco online e stress.La dipendenza dal gioco online è definito come l’uso eccessivo o compulsivo dei giochi, che interferisce con la vita quotidiana, che causa la tendenza ad isolarsi dal contesto sociale ed a concentrarsi quasi completamente sulle attività correlate ad esso. Esso sta diventando un serio problema di salute tra i giovani di tutto il mondo, con un numero crescente di adolescenti che vengono considerati a rischio. La ricerca, infatti, ha indicato che un uso eccessivo e ripetitivo del gioco su internet può alterare la struttura del cervello e le funzioni sottostanti specifici processi cognitivi, il che comporta un deficit nel controllo della funzionalità cognitiva, responsabile, a sua volta, di questa tipologia di dipendenza.Inoltre, è stato ipotizzato che la dipendenza da gioco online sia fortemente correlata allo stress, il quale, si sa, innesca diversi cambiamenti fisiologici. Infine, è stato chiarito come questo sia accompagnato, spesso, da altre condizioni associate con lo stress, come Ansia, Depressione, o Disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività (DDAI). 

La risposta allo stress.

Normalmente, una risposta adattativa allo stress aiuta gli individui ad adattarsi agli stimoli interni ed esterni, attivando alcuni sistemi, tra i quali il più importante è quello adrenergico simpatico. Quest’ultimo rilascia le catecolamine, ovvero Dopamina, Norepinefrina ed Epinefrina, le quali regolano l’attività dalle terminazioni nervose simpatiche e dalle ghiandole surrenali. Interruzioni a cavallo di tale rete sono state associate con la dipendenza da gioco online. 

Lo studio ed i risultati. 

Per lo studio, condotto dalla Dott. essa Nahyun Kim della Keimyung University College of Nursing, furono analizzati i campioni di sangue di 230 studenti delle scuole superiori in una città della Corea del Sud, per valutare i livelli di Dopamina, Epinefrina e Norepinefrina.Inoltre, ai partecipanti alla ricerca fu chiesto di rispondere a dei questionari che valutavano la dipendenza da gioco online ed i livelli di ansia.Il fine ultimo era quello di indagare se ci fosse un collegamento tra i livelli di catecolamine nel sangue e quelli d’Ansia e, se così, quale fosse l’influenza sulla possibilità di sviluppare una dipendenza da gioco online e sui livelli di stress.I risultati rivelarono che i livelli di Epinefrina e Norepinefrina erano significativamente più bassi nel gruppo con Dipendenza da gioco su internet, rispetto a quelli del gruppo con soggetti non dipendenti, mentre non c’erano differenze significative tra i gruppi per quel che riguardava i livelli di Dopamina.Inoltre, i livelli di ansia del gruppo con dipendenza erano significativamente più alti quando confrontati con i soggetti non dipendenti, nonostante non ci fosse nessuna relazione tra questa e le catecolamine analizzate.

Considerazioni finali.

I risultati forniscono la prova che il giocare eccessivo su Internet può portare, nel tempo, a livelli più alti di Ansia, ma anche a livelli periferici più bassi di Epinefrina e Norepinefrina, le quali alterano la regolazione automatica dello stress.I ricercatori hanno concluso: “In base a questi effetti fisiologici e psicologici, gli interventi pensati per prevenire e curare la dipendenza da gioco online dovrebbero prevedere di stabilizzare l’Epinefrina, Norepinefrina ed i livelli di Ansia negli adolescenti”, trova la tua strada con uno Psicologo a Pescara.  



Fonte: PsyPost.org             


(Traduzione ed adattamento a cura della Dottoressa Alice Fusella)

domenica 23 luglio 2017

Se la colpa è sempre degli altri....





La responsabilità e la colpa di tutto ciò che mi accade è sempre degli altri.”, “Sono gli altri i responsabili delle mie disgrazie. Io non ne ho colpa.”. Vi sono familiari queste frasi? Vi identificate con esse o conoscete persone che pensano in questo modo e che incolpano sempre gli altri dei propri errori?
Ci sono molte persone incapaci di accettare la responsabilità delle proprie azioni. E quando un individuo non è in grado di ammettere che è lui stesso ad avere in mano le redini della propria vita, che è lui che agisce, difficilmente si renderà artefice del proprio destino. In questi casi c’è sempre un colpevole per le sue disgrazie: ovviamente è sempre qualcun altro.
È il suo partner, è sua madre, la cognata, quella persona che ha conosciuto… Il repertorio è ampio. Tanto più ampio quanto lo si desidera. La cecità più limitante è quella di non poter accettare quella parte di noi che ci appartiene, che per fortuna ci appartiene, e che non è né degli altri né del fato. La negazione più assoluta e la convinzione che la colpa di ciò che ci accade sia sempre degli altri.
Proiettano esternamente le loro responsabilità per non farsene carico
Esistono veri artisti del mascherare la realtà e giustificarla dicendo a se stessi: la responsabilità non è mia. Non si pentono né si fanno problemi a ricorrere all’autoinganno, in parte perché sono abituati a realizzare incoscientemente questo processo. Tuttavia, l’autoinganno non smette di essere un limite importante, che sfuma la realtà e la rende sempre più appannata. Più caotica, più ostile.

Perdiamo il senso delle cose quando facciamo ricadere sugli altri le nostre responsabilità, quando agiamo in maniera capricciosa, quando ci frustriamo perché l’altro non risponde come vorremo alle nostre richieste. Perché non può o non vuole. E quella non è la nostra guerra. Noi siamo i soldati che agiscono di conseguenza.
Queste persone impiegano gran parte del loro tempo a lamentarsi. La lamentela è la loro bandiera. Non è mai sufficiente. Possono lamentarsi di ogni minimo ed insignificante dettaglio. Sono totalmente incapaci di digerire la frustrazione. Diventano veri tiranni del loro regno. La cosa peggiore è che i danni feriscono prima loro e poi le persone che amano.
Gli altri non soddisfano sempre le nostre aspettative
Questo ha molto a che fare con il fatto di non conoscersi bene, di non aver approfondito su se stessi e di avvertire le proprie ombre come altrui. Conoscersi ed accettarsi ora, in questo momento, è il primo passo verso il cambiamento. Se una persona non conosce i suoi bisogni, i suoi impulsi e non sa da dove nascono le sue azioni, difficilmente potrà cercare o trovare una soluzione.     
Se qualcuno non presta loro attenzione, piagnucoleranno come bambini, cercheranno di attirare l’attenzione, di manifestarsi a tutti i costi. Tutti o quasi tutti i mezzi sono validi in questa guerra. L’altro deve riconoscerli ad ogni costo. E quando questi non dedica loro le attenzioni che vogliono, si infuriano, si arrabbiano. Gli augurano tutto il male possibile e lo rendono colpevole delle loro frustrazioni; attribuiscono a questi la colpa per evitare future delusioni.
Una frustrazione che nasce nel momento in cui qualcuno non lascia tutto e si impegna per soddisfare le loro necessità. D’altro canto, in alcuni casi le persone che hanno intorno risolvono i loro problemi in modo talmente veloce da non rendersene nemmeno conto. In tali situazioni, sentono di non dover ringraziare nessuno, perché per gli altri è quasi un obbligo rispondere alla loro domande.
Recuperate le frecce che scoccate e ci guadagnerete in maturità
Non percepiscono gli altri come individui separati da se stessi. Sono schiavi che devono soddisfare le loro tiranniche necessità. Io ordino e tu obbedisci. E se non obbedisci, ti farò sentire in colpa e responsabile delle mie disgrazie. Questo è il modo in cui pensano.
Nel momento in cui recupereremo tutte le frecce che abbiamo scoccato, potremo prendere coscienza delle situazioni e rimediare a quella cecità indisponente che abbiamo reso la nostra bandiera. Il punto di partenza è sempre la comunicazione con l’esterno e con i propri schemi mentali. Parliamo di un’abitudine che è difficile da spezzare, maturata nel tempo, ma dalla quale si può guarire se si riceve il giusto aiuto.

Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it


mercoledì 19 luglio 2017

La mancanze di desiderio è un problema?




Quando si parla di problemi sessuali, pensiamo subito a quelli relazionati con l’orgasmo. Si commenta spesso sull’eiaculazione precoce negli uomini o sulla difficoltà delle donne di raggiungere l’orgasmo, ma sono gli unici problemi di natura sessuale?
Ovviamente no. Tra le difficoltà che possono influire sulla nostra vita sessuale,  ne troviamo altre che non sappiamo come risolvere o che non riteniamo essere nemmeno un problema. In questo articolo ci concentriamo sulla fase precedente all’incontro sessuale, quella che si presuppone nasca e venga alimentata dal desiderio. Cercheremo così di identificare in quali occasioni parlare di un reale problema e di come risolverlo. Continuate a leggere!
COME FUNZIONA LA RISPOSTA SESSUALE UMANA?
Prima di tutto, è importante avere ben chiaro come funziona la risposta sessuale umana. Questa si compone di cinque fasi:
Desiderio: è qui che comincia la risposta sessuale. Questa fase è caratterizzata dalla presenza di pensieri o fantasie sessuali, dal desiderio che avvenga l’attività sessuale e da possibili cambiamenti ormonali.
Eccitazione: è la seconda fase. Si prova una soggettiva sensazione di eccitazione, ma non solo: il corpo si prepara all’attività sessuale. Si verificano alcuni cambiamenti sia nell’uomo sia nella donna, al fine di realizzare l’atto sessuale
Orgasmo: segue l’eccitazione. Oltre ad una serie di contrazioni nel corpo dell’uomo e della donna, produce una sensazione e uno stato di piacere.
Risoluzione: dopo l’orgasmo, si prova una sensazione di sollievo e rilassamento man mano che il corpo torna allo stato precedente alla risposta sessuale
Soddisfazione sessuale: componente psicologica soggettiva che accompagna il rilassamento sessuale con il quale termina la risposta sessuale.
In ognuna di queste fasi possono verificarsi alcuni problemi che impediscono di avere rapporti sessuali soddisfacenti. Queste difficoltà possono essere classificate in diverse dimensioni: temporale, spaziale, situazionale, grado di gravità ed eziologica.
Rispetto alla prima, se la disfunzione c’è sempre stata, si parlerà di fase primaria, mentre se compare a partire da un determinato momento, sarà secondaria. Se è presente in ogni situazione, la chiameremo generale; situazionale se è associata a circostanze concrete. Per quanto riguarda la gravità, può trattarsi di totale se si prova al massimo livello, o parziale se questo non accade. Rispetto all’eziologia, in funzione delle cause che la provocano può essere organica o funzionale.      
I PROBLEMI DEL DESIDERIO SESSUALE
Nella prima fase della risposta sessuale umana possono comparire diverse difficoltà. Una di queste è il ridotto desiderio sessuale, ma anche un desiderio troppo elevato condurrebbe ad una condotta problematica. Anche così, la disfunzione più comune in questa fase sarebbe il desiderio sessuale inibito, che può sfociare in avversione verso i propri rapporti sessuali (diventano un obbligo e non sono più visti come momenti di piacere). L’inibizione del desiderio sessuale è una riduzione anomala e persistente del desiderio e della voglia di portare a termine l’attività sessuale.
Perché accade? Le cause sono diverse. Iniziando dalla relazione di coppia, magari è segnata dai litigi o è monotona oppure uno dei due membri soffre di una disfunzione sessuale; tutto ciò può causare l’inibizione del desiderio sessuale che nasce dall’anticipazione di una situazione piacevole. Se l’atto sessuale non viene percepito come piacevole a tutti i livelli, è difficile che si presenti il desiderio.
Tuttavia, ci sono anche altre cause. A livello fisico influiscono problemi medici o l’assunzione di droghe o farmaci. Seguendo questa linea, questi problemi possono essere causati anche dagli anticontraccettivi orali o dalla stanchezza fisica.    
Per quanto riguarda i fattori psicologici ed individuali, possono influire l’ansia, lo stress e la depressione,avere un orientamento sessuale ambivalente o parafilia. Le esperienze sessuali traumatiche sono un altro possibile fattore scatenante. Quest’ultimo può far sì che l’inibizione derivi da un’avversione sessuale: un sentimento di ripugnanza estrema verso i rapporti sessuali.
Il fatto è che, essendo il desiderio sessuale la prima fase di questa risposta, un problema in questo aspetto condiziona enormemente l’attività sessuale e, pertanto, la conseguente soddisfazione. Dati i benefici associati alla pratica sessuale, è importante cercare l’aiuto professionale di uno psicologo a pescara se si soffre di problemi di questo tipo…. È tutto nelle vostre mani!  

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“Esiste una sola forza motrice: il desiderio”
-Aristotele-

Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it

venerdì 30 giugno 2017

Dolori senza cause apparenti....






Cosa sono i disturbi di somatizzazione?
In letteratura si è fatto spesso riferimento ai problemi psicosomatici (le patologie fisiche dove i fattori emotivi svolgono un ruolo importante) come problematiche comuni che affliggono molte persone. Alcune però sembrano soffrire di continue patologie fisiche non riconducibili ad una condizione nota o ad un agente patogeno; lamentele generiche, dolori improvvisi, problemi gastrointestinali e difficoltà sessuali sono solo alcuni dei sintomi tipici che possono essere riporati. Dopo accertamenti medici effettuati per capire l'origine di questi dolori molto spesso si scopre che non ci sono cause organiche da cui può derivare direttamente il malessere.
Il DSM IV inserisce il disturbo di somatizzazione all'interno dei disturbi somatoformi. Secondo il manuale una persona è affetta da disturbo di somatizzazione se lamenta nel corso della sua vita sintomi dolorosi (per es.,cefalea, mal di schiena, articolazioni doloranti), due sintomi gastrointestinali (per es., colite, diarrea, nausea), un sintomo sessuale che non sia il solo dolore (per es., dolori mestruali, indifferenza sessuale, disfunzioni dell’erezione) e un sintomo pseudo-neurologico (per es., sintomi di conversione, come deficit della coordinazione o dell’equilibrio, vertigini, paralisi o ipostenia localizzate, difficoltà a deglutire o nodo alla gola).
Il DSM V ha abolito la dicitura “somatizzazione” e fatto convergere nel disturbo con sintomi somatici semplice o complesso, a seconda della durata dei sintomi, il disturbo da somatizzazione l'ipocondria, il disturbo algico e il disturbo indifferenziato somatoforme.

Disturbi di personalità o sindrome clinica?
Questi cambiamenti terminologici e diagnostici spiegano bene la complessità della materia e l'etereogenità del concetto. Altri manuali come il PDM infatti ci invitano a considerare il disturbo di somatizzazione non solo come una sindromema anche come una sequenza di pattern stabili facente parte del carattere della persona: il manuale li classifica come disturbi somatizzanti di personalità. 
I problemi psicosomatici sembrano interessare soprattutto individui con uno scarso controllo sugli eventi e culture in cui è scoraggiata l’espressione verbale delle emozioni. La letteratura empirica sugli aspetti caratteriali è scarsa, data la difficoltà di distinguere il disturbo da una patologia fisica non diagnosticata. L’esperienza clinica suggerisce l’esistenza del disturbo caratterizzato dalla tendenza abituale ad esprimere le emozioni, soprattutto quelle negative, tramite il corpo. I pazienti somatizzanti sono noti per la loro alessitimia, cioè l’incapacità di esprimere verbalmente le proprie emozioni. Anche se la connessione tra somatizzazioni e alessitimia non è ancora oggetto di ricerche sufficienti, molti clinici sostengono che i bambini che non possono verbalizzare i propri sentimenti tendono ad agirli o a somatizzarli, lasciando così parlare i loro corpi al posto delle loro menti. I dolori di cui soffrono tali pazienti sono reali e quindi possono causare loro una grave compromissione dell’aspetto sociale. I somatizzatori cronici spesso raccontano di essersi sentiti inascoltati e possono agire verso gli altri come se fosse impossibile ricevere aiuto, ma anche in modo oppositivo. Sono spesso riscontrabili in queste persone fragilità fisica e malattie nella prima infanzia.

Cosa prova la persona?
Al di là dei dubbi diagnostici su sindrome o disturbo di personalità ciò che emerge distintamente è la difficoltà, per chi ne soffre, a gestire mentalmente questa situazione: da una parte si è rassicurati dal fatto che non viene riscontrata nessuna patologia organica; dall'altra però si è preoccupati perchè il dolore fisico permane, apparentemente senza nessuna causa. Questa ambivalenza porta in molti casi a sentirsi disorientati, senza punti di riferimento, come se mancasse il terreno sotto i piedi, e con una vaga e generica paura di “impazzire”. Quello che spesso non si comprende di queste problematiche è che il dolore provato dalla persona è reale e non immaginario: chi sta accanto può pensare a delle lamentele eccessive, sottovalutare la sofferenza da essi provata o addirittura cominciare a pensare a un tentativo di manipolazione.
Si è quindi creato un perfetto circolo vizioso che danneggia la salute del soggetto: situazioni di stress a più livelli sfociano in dolori fisici che alimentano, rinforzata dalla diffidenza dei familiari, la paura di impazzire, che a sua volta fa aumentare i livelli di stress, ansia ed insicurezza dell'individuo che peggiorano le condizioni del corpo.
E' chiaro che questo meccanismo può apparire riduttivo e non rende giustizia alla complessità e diversità degli esseri umani e delle loro relazioni. E' utile però isolare questo tipo di dinamica comportamentale per capire quanto sia in questi casi un esercizio inutile e dannoso separare la sofferenza fisica da quella psicologica facendone una scala di valori e importanza.

Come si affronta il problema?
Il pregiudizio di una scissione mente-corpo, tipica del 19° secolo, è ancora presente nella nostra cultura se non in termini di filosofia, almeno a livello di linguaggio. Chi controlla chi? Il corpo è controllato dalla mente o i problemi del corpo e del sistema immunitario si riflettono sulla salute psicologica? Oggi, nel 21° secolo questo è un dilemma che dovrebbe appassionare il giusto, tenendo presente come la priorità sia il benessere della persona. L'unificazione del modello medico con quello psicologico può aiutare a risolvere la controversia. La stretta collaborazione tra medico e psicologo, in particolare in questi tipi di disturbi sembra fondamentale per aiutare chi ne soffre ad uscire da questa situazione. Il somatizzatore solitamente non consulta lo psicoterapeuta, di sua iniziativa lo fa solo se disperato o se viene mandato in terapia, per questo il lavoro del medico è fondamentale nell'aprire uno spazio di pensabilità diverso nell'approcciare il problema. In psicoterapia poi l’accento verrà posto non sui sintomi fisici in sé ma sul fatto che essi sono un linguaggio che il paziente usa per rappresentarsi una condizione di disagio psichico.
Il problema non consiste nella natura della sindrome, se organica o funzionale, ma nel peso relativo da attribuire ai diversi fattori psicologici, biologici e sociali.

Fonte:  http://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/2311-disturbi-somatizzazione.html 


Bibliografia:

- PDM (a cura di), PDM. Manuale Diagnostico Psicodinamico. Presentazione all'edizione italiana di Vittorio Lingiardi e Franco Del Corno. Introduzione alla Parte II di Massimo Ammaniti. Introduzione alla Parte III di Nino Dazzi. Trad. di Francesco Gazzillo, Riccardo Pacifico, Angela Tagini. Milano: Raffaello Cortina, 2008, (ediz. orig.: Psychodynamic Diagnostic Manual [PDM]. Silver Springs, MD: Alliance of Psychoanalytic Organizations, 

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martedì 27 giugno 2017

L'uomo moderno ha in media 45.000 pensieri negativi!






Una ricerca Australiana ha scoperto che noi abbiamo 60.000 pensieri al giorno..
E la cosa ancora più stupefacente è che di questi 60.000 pensieri il 95% sono gli stessi pensieri di ieri e del giorno prima e di quello ancora prima. La mente è come una radio che trasmette lo stesso disco all'infinito.
E questo non sarebbe così terribile se non fosse per la statistica successiva: per la persona media l'80% di questi pensieri abituali sono pensieri negativi. Questo significa che ogni giorno la maggior parte delle persone ha più di 45.000 pensieri negativi!!



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sabato 27 maggio 2017

Per le donne il Flirt è una vera minaccia al proprio rapporto




Per gli uomini, flirtare è come un gioco. Si fa non tanto perché l’altra sia più bella della propria partner, ma semplicemente perché è “un’altra”. Allo stesso tempo, però, si dimostrano poco disposti ad accettare lo stesso comportamento da parte della partner. Per le donne, invece è tutto più serio: il flirt con un bell’uomo, sebbene passeggero, diventa occasione di riflessione sulla natura del rapporto in corso. Questi differenti meccanismi di reazioni dipendono dalla differente atteggiamento di genere verso il “flirt”.
È questo il risultato di una ricerca condotta da John E. Lydon dell’Università di Montreal e recentemente pubblicata nella rivista Journal of Personality and Social Psychology. Mentre gli uomini non percepiscono la persona con cui flirtano una minaccia per la loro relazione, le donne la vedono come una reale concorrente e si comportano di conseguenza per difendere la propria relazione. La ricerca è stata condotta su 724 uomini e donne eterosessuali nel corso di sette differenti esperimenti. In uno di questi, 71 uomini sono stati fatti incontrare con una donna attraente. La metà di essi hanno incontrato una single, che ha accettato il corteggiamento. L’altra metà una donna, che semplicemente li ha ignorati. 
A seguito dell’appuntamento, gli uomini sono stati sottoposti a un questionario, con domande del tipo: come reagirebbe se il suo partner si comportasse stranamente, come ad esempio rifiutare un appuntamento o inventarsi scusa improponibili su come ha passato la serata. Tra gli uomini, che poco prima avevano flirtato, solo il 12% sarebbe disposto a perdonare il partner. Tra le donne, che pure avevano effettuato il medesimo test con uomini attraenti, la percentuale di perdono sale al 17,5. “Di fronte a tali situazioni gli uomini giudicano i fatti diversamente dalle donne” è il commento di Lydon. È questa diversità di classificazione, di categorizzazione, dei comportamenti che determina una diversa capacità di resistenza alle tentazioni. E non, come si è soliti dire, una presunta debolezza verso ciò che tenta a produrre determinati modi di agire.




Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/articles/428




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venerdì 27 gennaio 2017

Come l'EMDR può aiutare i supestiti ed il dolore della perdita...




RIVIVERE un evento traumatico per integrarlo nella propria coscienza, superando i sintomi psicopatologici conseguenti alla sua mancata elaborazione: è l'obiettivo ideale di molti trattamenti psicoterapeutici, che si propongono di aiutare i pazienti a prendere contatto con le proprie rappresentazioni psichiche non coscienti o non tollerabili, per imparare finalmente a gestirle. Ora i ricercatori sono riusciti a "visualizzare il trauma" nel cervello di persone colpite da eventi catastrofici e a documentare la sua elaborazione dopo un trattamento con la tecnica chiamata EMDR (Eye movement desensitization and reprocessing, o Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari).
Sebbene una certa diffidenza nei confronti dell'EMDR sia ancora presente, soprattutto in alcuni ambienti accademici e in relazione alla scientificità del metodo, il trattamento nel 2013 è stato riconosciuto dall'Organizzazione Mondiale per la Sanità come efficace per la cura dei disturbi traumatici. Molti clinici esperti della tecnica si sono dedicati alla dimostrazione sperimentale della sua azione, con metodiche di visualizzazione che documentano l'attivazione di diverse aree del cervello, prima e dopo il trattamento, quando i soggetti rievocano le proprie memorie traumatiche. Isabel Fernandez dell'Associazione EMDR Italia, Marco Pagani del CNR e Giorgio Di Lorenzo dell'università di Roma "Tor Vergata" hanno presentato recentemente i risultati di una ricerca condotta su 60 volontari: nel cervello delle persone sopravvissute a eventi catastrofici è possibile documentare con l'elettroencefalogramma l'attivazione delle aree cerebrali legate alle rappresentazioni più cariche di significato emotivo quando viene rievocato il trauma, ma dopo il trattamento EMDR il ricordo traumatico attiva altre zone, dotate di maggiore capacità di elaborazione cognitiva.
Ideata alla fine degli anni '80 del secolo scorso dalla psicologa statunitense Francine Shapiro, l'EMDR nasce da un'osservazione casuale della sua fondatrice, che notò come i suoi occhi tendessero a spostarsi lateralmente quando si soffermava a rievocare alcune sue esperienze traumatiche; osservò anche che, richiamando più e più volte alla mente quei pensieri disturbanti, essi perdevano progressivamente la loro carica emotiva negativa.
Affascinata da tale fenomeno, cominciò a sperimentare il suo metodo: nel giro di sei mesi aveva raccolto una settantina di casi, nella maggior parte dei quali era riuscita a ridurre notevolmente l'ansia associata ai ricordi sgradevoli. Provò quindi ad applicare la tecnica a vittime di stupro o violenze e a reduci di guerra, confermando la validità delle proprie osservazioni.
Dopo più di venticinque anni i terapeuti che nel mondo utilizzano l'EMDR sono decine di migliaia e la tecnica è stata applicata con successo non solo nei casi di stress post-traumatico, ma anche nei disturbi psichici legati ai cosiddetti "traumi relazionali": rapporti difficili con le proprie figure di attaccamento che, per svariate ragioni, possono minare la costruzione di un'identità sicura e di una sufficiente fiducia in se stessi.
La tecnica EMDR, che affonda le sue radici tanto nella psicologia quanto nella neurobiologia, può essere integrata con altri approcci e applicata da clinici con differenti orientamenti terapeutici, ma prettamente cognitivo-comportamentale.

Fonte: www.repubblica.it


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mercoledì 25 gennaio 2017

Spendere soldi fa bene....







C'è chi dice che con i soldi non si possa comprare la felicità, e le ricerche sul tema condotte fino ad oggi sembrano confermare questa teoria. Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science da un gruppo di ricercatori della Cambridge Judge Business School e del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Cambridge (Regno Unito) svela però un nuovo aspetto della questione, dimostrando che poter spendere per acquistare prodotti o servizi in linea con la propria personalità aumenta la soddisfazione nei confronti della propria vita e può davvero rendere più felici.

Lo studio ha previsto prima di tutto la classificazione della personalità dei 625 partecipanti in base ai cosiddetti Big Five della psicologia: estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura mentale. Grazie alla collaborazione con una banca multinazione con sede nel Regno Unito i ricercatori hanno potuto incrociare i dati sulla personalità con più di 77 mila transazioni bancarie effettuate dai partecipanti. Oltre a rilevare una maggiore tendenza a spendere di più per acquistare prodotti e servizi corrispondenti alla propria personalità (nel caso di una persona estroversa, ad esempio, una cena in un pub) i ricercatori hanno anche osservato un'associazione tra acquisti in linea con la propria personalità e una maggiore soddisfazione per la propria vita.

La conferma dell'associazione è arrivata da un secondo esperimento in cui i partecipanti hanno ricevuto dei buoni da spendere in una libreria o in un bar. Le persone estroverse che hanno potuto utilizzarlo in un bar sono risultate più felici rispetto alle persone introverse che sono state costrette a spenderlo nello stesso modo. Viceversa, gli estroversi obbligati a spendere il buono in una libreria ne sono stati meno felici rispetto agli introversi che hanno potuto usarlo per acquistare libri.

Forse ancora più interessante, i ricercatori hanno scoperto che utilizzare i soldi a disposizione per acquisti in linea con la propria personalità aumenta la soddisfazione personale più che guadagnare molto o poter spendere molto. I soldi, insomma, possono fare davvero la felicità, ma solo se spesi per soddisfare i propri bisogni psicologici. “I nostri risultati – sottolinea Sandra Matz, primo nome dello studio – suggeriscono che spendere soldi in prodotti che ci aiutano ad esprimere chi siamo come individui potrebbe rivelarsi importante per il nostro benessere tanto quanto trovare il giusto lavoro, il giusto posto in cui vivere o addirittura i giusti amici o partner”
                         

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