giovedì 26 febbraio 2015

I rapporti sociali positivi influenzano la nostra salute!




Un cuore grande. È quello che ci vuole tra vicini, anche per stare bene. Se le liti condominiali sono una fonte pericolosa di stress, al contrario andare d'accordo con i vicini di casa è un toccasana per il cuore. Lo dice una ricerca pubblicata sul Journal of Epidemiology and Community Health. Vivere con soddisfazione le relazioni comunitarie può migliorare la salute cardiaca del 67%.

Lo studio ha seguito per 4 anni oltre 5mila persone con un'età media di 70 anni. I partecipanti non avevano problemi cardiaci all'inizio della ricerca, ma 148 persone sono state colpite da crisi cardiache e sono morte durante il periodo di monitoraggio. Che ruolo in questa sofferenza ha avuto la vita in comunità? Di primo piano, secondo i ricercatori, che avevano chiesto ai partecipanti di descrivere la soddisfazione nei rapporti di vicinato con questionari e giudizi su una scala in 7 punti su : il sentimento di appartenenza, la presenza di vicini disponibili a fornire un aiuto, la fiducia negli abitanti del quartiere e la percezione del livello di socievolezza.

Il risultato ha dimostrato che rispetto alle persone morte per problemi cardiaci, i soggetti che avevano dichiarato di avere rapporti positivi con i vicini mostravano una salute cardiaca anche del 67% migliore rispetto agli altri. Lo studio non conclude che ricevere e fare gentilezze alla persona della porta accanto sia un fattore decisivo per la salute del cuore, anche perché persone che hanno già problemi cardiaci potrebbero vivere con minore intensità i rapporti sociali e avere su questi un giudizio meno positivo, ma suggerisce ai medici di tenere in considerazione anche questi fattori per mettere a punto le migliori strategie sanitarie. Il Dr. Di Venanzio il tuo Psicologo per Ansia a Pescara.




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Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/

lunedì 23 febbraio 2015

Il potere logora chi non ce l’ha







“Il potere logora chi non ce l’ha”. L’aforisma, che pare fosse del politico francese Charles Maurice de Talleyrand-Périgord ma che in Italia ha la voce e il volto di Giulio Andreotti, ha una base scientifica. Chi ha il potere non annega nella solitudine e nella tristezza. Tutt’altro. Essere ai vertici sul lavoro, ma anche primeggiare fra gli amici o essere la figura dominante in una relazione amorosa rende più felici. Almeno questa è la conclusione di un team di scienziati israeliani della Tel Aviv University, con uno studio pubblicato sulla rivista ‘Psychological Science’.

La ricerca dà un colpo di spugna al mito del potente solo e logorato sul tetto del mondo che per secoli ha alimentato l’immaginario collettivo. Uno stereotipo infondato, concludono i ricercatori. Confermado la tesi del senatore a vita italiano. Sulla base di una ricerca su potere e personalità, la scienziata Yona Kifer e i suoi colleghi hanno ipotizzato che raggiungere una posizione di autorità possa migliorare il benessere soggettivo attraverso una sensazione di maggiore autenticità. Questo perché, secondo i ricercatori, “il potente è in grado di ‘traghettare’ la sua vita sulla rotta dei propri desideri e inclinazioni”, si sente più se stesso e dunque è più contento.

A sostegno di questa tesi gli scienziati portano i risultati di alcuni esperimenti. Nel primo hanno sondato più di 350 persone per stabilire se la sensazione di potere è da loro associata con il benessere personale in diversi contesti, come il lavoro o il rapporto di coppia. Risultato? Chi si sente più potente tende a essere più contento. E più in alto si trovano gli intervistati maggiormente si sentono soddisfatti, in percentuale il 16% in più rispetto a chi si trova in basso. Questo ‘effetto scettro’ è molto più evidente per i potenti nel mondo del lavoro. Gli impiegati ai vertici sono il 26% più soddisfatti dei colleghi meno autoritari. Il ‘gap’ nella felicità risulta invece ridotto se si considerano le persone che si sentono ‘prime’ fra gli amici o in una relazione a due. Gli scienziati ipotizzano che questo succeda perché l’amicizia viene associata a un senso di comunità più che alle gerarchie e avere potere in questo tipo di relazioni è meno importante, quindi meno benefico. Nel secondo e nel terzo esperimento Kifer e il suo team hanno esaminato la relazione causale fra potere, sentimento di autenticità e benessere generale. I risultati hanno rivelato che essere potenti porta a sentirsi più fedeli a se stessi. E vivere una vita autentica, a sua volta, aumenta il benessere e la felicità, concludono gli scienziati. 









Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it

sabato 21 febbraio 2015

Nella pancia un secondo cervello..






La chiave di stress, ansia e tensione è nella pancia. Qui, infatti, si trova un vero e proprio secondo cervello, con importanti funzioni che si riflettono sull’intero organismo che regola le emozioni, i ricordi e il piacere. A lungo l’intestino e’ stato considerato una struttura periferica, deputata a svolgere funzioni marginali. La verità è che la nutrizione influenza il nostro pensiero e la nostra mente inconscia in una proporzione addirittura del 90%! Oltre a mostrare un collegamento diretto con lo sviluppo di quasi tutte le malattie.
“Sappiamo che, per quanto il concetto possa apparire inadeguato, il sistema gastroenterico è dotato di un cervello. Lo sgradevole intestino è più intellettuale del cuore e potrebbe avere una capacità “emozionale” superiore. È il solo organo a contenere un sistema nervoso intrinseco in grado di mediare i riflessi in completa assenza di input dal cervello o dal midollo spinale.”

Basi scientifiche
Lo afferma Michael D. Gershon, esperto di anatomia e biologia cellulare della Columbia University autore del best seller “Il Secondo Cervello” – “Basti pensare che l’intestino, pur avendo solo un decimo dei neuroni del cervello, lavora in modo autonomo, aiuta a fissare i ricordi legati alle emozioni e ha un ruolo fondamentale nel segnalare gioia e dolore. Insomma, l’intestino è la sede di un secondo cervello vero e proprio. E non a caso le cellule dell’intestino – spiega l’esperto americano producono il 95% della serotonina, il neurotrasmettitore del benessere” La fonte della felicità
“Nella pancia troviamo infatti tessuto neuronale autonomo. E non a caso le cellule dell’intestino –aggiunge Gershon – producono il 95% della serotonina, il neurotrasmettitore del benessere. L’intestino rilascia serotonina in seguito a stimoli esterni, come immissione di cibo, ma anche suoni o colori. E a input interni: emozioni e abitudini.” Studi su cavie geneticamente modificate, ma anche in vitro, ‘hanno dimostrato l’esistenza di un asse pancia-testa. Per Gershon e’ la prima a dominare, almeno in certi campi. La serotonina è coinvolta in numerose e importanti funzioni biologiche: ciclo sonno-veglia, desiderio sessuale, senso di fame/sazietà, umore e peristalsi. Avere un livello di serotonina bassa può comportare disturbi dell’umore, problemi di natura sessuale, problemi a dormire, problemi a defecare, accentuare l’ansia e contribuire a stati depressivi.

La serotonina interviene nel controllo dell’appetito e del comportamento alimentare, determinando una precoce comparsa del senso di sazietà, una minore assunzione di carboidrati a favore delle proteine e una riduzione, in genere, della quantità di cibo ingerita. Non a caso, molte persone che lamentano un calo dell’umore (ad esempio una depressione pre-mestruale, vedi sindrome pre-mestruale) avvertono un bisogno importante di dolci (ricchi di carboidrati semplici) e cioccolato (contiene e favorisce la produzione di serotonina, perché ricco di zuccheri semplici, oltre che di sostanze psicoattive). 


Il nostro potere è nella pancia
La quantità di messaggi che il cervello addominale invia a quello centrale e’ pari al 90% dello scambio totale, sostiene il ricercatore. Per la maggior parte si tratta di messaggi inconsci, che percepiamo solo quando diventano segnali di allarme e scatenano reazioni di malessere. “Quanti – dice – hanno sperimentato la sensazione delle “farfalle nello stomaco” durante una conversazione stressante o un esame?. E’ solo un esempio delle emozioni della pancia, come nausea, paura, ma anche dolore e angoscia. Il sistema nervoso enterico comunica con quello centrale. E quando l’intestino soffre, ad esempio per la sindrome del colon irritabile, la persona ne risente anche a livello psichico.” I bambiniche soffrono di colon irritabile da piccoli, hanno la quasi certezza di soffrire anche da grande, di ansia e/o depressione.


Conflitti emotivi
Il cervello di sotto quindi, non è solo legato alle reazioni al cibo ingerito, ma può pensare, prendere decisioni, provare sensazioni autonomamente da quello di sopra, come insegna la neurogastroenterologia, vedi la colite, l’ulcera, i bruciori di stomaco ecc. che sono proprio malattie causate dallo stress (emozioni forti, non digerite) ed i mediatori con causali sono poi i batteri che si mutano perché le condizioni del terreno intestinali di pH sono variate. Diversamente dai neuroni contenuti nella scatola cranica, quelli sparsi in tutto il resto del corpo possono essere “massaggiati”, sia con il vero massaggio che stimola i corpuscoli tattili e i recettori fibro muscolari e tendinei, sia con il movimento. Inoltre i centri nervosi viscero-addominali possono essere stimolati col respiro addominale (non toracico), come insegnano tutte le discipline orientali.



Alimentazione corretta, meditazione e integrazione dei conflitti
Dunque stress e ansia pesano sull’intestino e ne alterano il funzionamento. Ma e’ vero anche il contrario: dieta e disordini intestinali sono collegati a variazioni dell’umore. Insomma, nella pancia c’e’ un cervello che assimila e digerisce non solo il cibo, ma anche informazione ed emozioni che arrivano dall’esterno. E che copre un’area vasta: il tessuto intestinale srotolato ha dimensioni di 200-250 metri quadri, ed e’ abitato da 10.000 miliardi di cellule batteriche. Per trattare i disturbi di funzionali del tratto gastroenterico varie tecniche di meditazione e tecniche di rilassamento si sono dimostrate utili: Mindfulness,la meditazione-medicina del momento presente, training autogeno etc. 










Fonte: http://www.dionidream.com/








mercoledì 18 febbraio 2015

Come potenziare la memoria..



Ripetere, ripetere, ripetere. Ripetere per imparare una poesia a memoria, ripetere per memorizzare le formule chimiche o le informazioni del libro di storia. Fin dalle elementari ci hanno insegnato questo semplice 'trucco' per imparare più facilmente. Una strategia che, però, sarebbe fallimentare. Secondo un nuovo studio, pubblicato sulla rivista "Learning and Memory", la semplice ripetizione potrebbe interferire con le capacità di memoria. Ma non solo. "Potrebbe crearci qualche difficoltà nell'apprendere nuove informazioni su quello stesso argomento che stiamo ripetendo", spiegano gli psicologi Henry Roediger e Mark McDaniel.
"Ripetere può essere un tranello - continuano - ci dà la sensazione di aver imparato qualcosa quando, in realtà, non è così". Nell'esperimento, i ricercatori hanno mostrato più volte ai partecipanti una lista di oggetti. Poi li hanno messi di fronte ad oggetti simili ("esche"): coloro che avevano visto gli oggetti più volte riconoscevano più facilmente l'oggetto originale ma trovavano qualche difficoltà con le esche. Insomma, la loro memoria era più forte, eppure meno precisa.
"Succede questo: quando leggi qualcosa per la prima volta, impari molto. La seconda volta, invece, leggi pensando: 'Questo lo so, questo pure. Questo l'ho già visto' - spiegano gli psicologi - non stai capendo sul serio la materia, non ne estrai nulla. La ri-lettura e la ripetizione sono insidiose per questo. Perché ti danno la sensazione di sapere tutto, quando, in verità, hai delle lacune".
Se la nostra memoria 'fa cilecca', ecco 3 modi in cui possiamo rafforzarla:


1. USA IL "METODO DEI LOCI"

È un metodo molto antico ed è il padre delle tecniche di memoria. Consiste nell'inserire gli oggetti in ordine sequenziale in un mondo 'immaginario', creato apposta dalla nostra mente. Basta che identifichi un percorso o un edificio familiare e inserire proprio lì gli oggetti che devi imparare. Ad esempio, se vuoi memorizzare la parola "Macchina", "Nave", "Cane", tutte insieme, cerca di costruire un'immagine mentale in cui ci siano tutte e tre. Per frasi o parole più complicate, puoi creare una serie di collegamenti tra loro, immaginando cosa possa unire i tuoi soggetti.
2. RIPETI A INTERVALLI
Ripetere non fa male. È meglio dire che non sempre è efficace. "La cosa migliore sarebbe dare il giusto spazio alla ripetizione, fare delle pause che possono durare da un'ora a una settimana", spiegano gli psicologi. "Continuare a chiedere a te stesso di ricordare alla perfezione una determinata cosa stressa la tua mente, non apporta nulla di più. Quello che può fare bene, invece, è ripetere a intervalli regolari di tempo". Ma quale sarebbe l'arco di tempo più giusto? Tutto dipende dagli impegni. Possiamo ripetere dopo un'ora dal momento in cui abbiamo letto il materiale, poi ancora dopo essere andati in palestra, poi ripassare dopo tre giorni o una settimana.
3. COLLEGA I PUNTI
Il segreto per memorizzare? Capire. In uno studio pubblicato sul Journal of Cognitive Neuroscience, i ricercatori hanno osservato che gli studenti al secondo anno di biologia acquisiscono meglio informazioni nuove perché possono riferirsi a qualcosa che hanno già studiato, al bagaglio di conoscenze del primo anno: "Se non sai immediatamente la risposta, puoi provare a 'ripescare' qualcosa che hai imparato in passato su quel determinato argomento. Questo ti aiuta a trovare la risposta giusta", affermano i ricercatori. Basta, insomma, collegare i punti della nostra memoria.


      
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Fonte:/http://www.huffingtonpost.it/

venerdì 13 febbraio 2015

Perchè gli uomini pensano solo al sesso?



Se gli uomini pensano solo al sesso è colpa della psicologia evolutiva. Secondo Mons Bedixen, esperto del Dipartimento di Psicologia della Norwegian University of Science and Technology di Trondheim, in Norvegia, questa evidenza non dovrebbe nemmeno sorprendere. “La fitness riproduttiva di un uomo, cioè la quantità di figli che produce, dipende da quante donne riesce a mettere incinte”, spiega il ricercatore. Proprio per questo gli uomini tenderebbero ad interpretare gli atteggiamenti amichevoli delle donne come il via libera a un approccio più intimo.

In uno studio pubblicato sulla rivista Evolutionary Psychology Bedixen ha chiesto a 308 uomini e donne tra i 18 e i 30 anni di rispondere a domande sul loro rapporto con l'altro sesso. Ne è emerso che sia gli uomini che le donne pensano che i loro comportamenti siano male interpretati dall'altro sesso. Le donne hanno infatti dichiarato che nell'anno precedente almeno 3,5 volte era capitato che il loro atteggiamento amichevole fosse interpretato da un uomo come un interesse sessuale. Anche gli uomini hanno ammesso di essere stati protagonisti di fraintendimenti di questo tipo, ma molto meno spesso. Nella maggior parte dei casi, invece, gli uomini capiscono benissimo se una donna è sessualmente interessata a loro, mentre capita che le donne interpretino quello che è un interesse di tipo puramente sessuale come se fosse un atteggiamento semplicemente amichevole.

Il fatto, spiega Bedixen, è che per le donne “non funziona allo stesso modo” in cui funziona per gli uomini. La gravidanza ha infatti un costo maggiore per una donna, in quanto comporta non solo di dover affrontare la gestazione, ma anche di affrontare il parto e prendersi cura del bambino dopo la sua nascita. Inoltre una gravidanza porta una donna a rinunciare all'opportunità di riprodursi con altri uomini. Per questo la soglia preimpostata dall'evoluzione oltre la quale una donna prende in considerazione la possibilità di avere dei rapporti sessuali è più elevata rispetto a quella tipica degli uomini.

“Anche se questi processi non sono consapevoli nella pratica possiamo ancora vederne il risultato”, sottolinea Bedixen. All'evoluzione, insomma, non si scappa.



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Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/

lunedì 9 febbraio 2015

Crisi di coppia, quando chiedere aiuto?






Passate poco tempo insieme, siete troppo stanchi per fare sesso e desiderate cambiare la vostra dolce metà? Potrebbero essere i segnali che la vostra coppia ha bisogno di una consulenza, prima che la relazione arrivi a un punto di non ritorno. "Purtroppo spesso accade che l'aiuto di uno specialista venga richiesto quando è già troppo tardi", spiega Enrico Gamba, psicologo. "Questo non significa che è necessario recarsi da un consulente al primo segnale, ma occorre prestare attenzione, soprattutto se si comprende di non essere in grado di affrontare da soli le problematiche che affliggono la coppia e che ci si sta allontanando", aggiunge l'esperto. Vivere la vita a due non è infatti mai semplice, considerato che ciascuno ha le proprie spigolature e diversità di carattere che, se non ben gestite, alla lunga possono portare a un girone di incomprensioni, frustrazione e risentimento da cui può essere difficile uscire. "Io e mio marito siamo in terapia di coppia", racconta Michela, 38 anni. "Mi sono resa conto che avevamo bisogno di aiuto quando un giorno mi sono infuriata con il mio gatto e in seguito ho avuto una crisi isterica di fronte a mia madre. Mi sono accorta che non riuscivo più a contenere la rabbia e che la stavo scaricando su altre persone, mentre il problema stava nel mio matrimonio". 

La collera, dunque, può essere una prima spia di allarme. "Anche se non l'unica", spiega Michele Weiner-Davis, terapista matrimoniale e autrice del libro Divorce Busting. "Qualsiasi cambiamento, mangiare di più, dormire meno, piangere frequentemente, sentirsi affaticati, possono essere segnali di problemi matrimoniali". Alcuni ricercatori della Brigham Young University hanno inoltre scoperto che più gli uomini inviano messaggi, meno felici sono nelle loro relazioni. Il motivo? Secondo l'indagine, gli uomini insoddisfatti preferiscono l'approccio digitale al confronto diretto, in modo da mantenere le distanze. Se la relazione è arrivata a un punto di corto circuito la mediazione di un terzo potrebbe dunque aiutare a superare l'impasse, ad esempio insegnando ad ascoltare l'altro senza emettere giudizi o a esprimere la propria frustrazione in maniera costruttiva. Intavolando dunque il rapporto verso momenti di dialogo attivo. 


5 SEGNALI CHE LA COPPIA HA BISOGNO DI AIUTO

1. Scarsa comunicazione
Parlate poco e non provate piacere a farlo? Potrebbe essere la prima spia che le cose non vanno bene. "Questa dinamica indica infatti che non si è presenti all'interno della relazione", specifica Gamba. D'altro canto, anche parlare solo di questioni operative e relative alla quotidianità, trascurando argomenti più profondi e connessi all'interiorità, non è un buon segno. "Così come se il giudizio e la rabbia nei confronti dell'altro tendono a prevalere nelle conversazioni", aggiunge l'esperto.

2. Poco tempo per la coppia
Un altro segnale preoccupante è il poco tempo passato insieme. "Se non si nutre la voglia di trascorrere del tempo di qualità insieme e se non si condividono più bisogni e desideri allora forse potrebbe essere il caso di fermarsi e di riflettere", commenta l'esperto. Stesso discorso se nei momenti liberi ciascuno pianifica da solo il proprio tempo, organizzandosi autonomamente.



3. Cercare di cambiare l'altro
"Non è un buon segno neppure pensare che l'altro dovrebbe essere diverso e cercare di cambiarlo. È un elemento che indica che le cose non vanno bene", spiega Gamba. Perché sottintende la mancanza di affinità con il partner. "Con il risultato di sentirsi soli o come due estranei che vivono insieme, un indicatore che la coppia non sta crescendo insieme". Occorre invece cercare di vivere momenti di dialogo attivo, dandosi anche dei feedback rispetto a quello che l'altro ha detto.

4. Calo del desiderio
Un altro aspetto che indica fronti temporaleschi sulla coppia è la scarsa affinità e complicità in ambito sessuale. Insieme al calo del desiderio e alla voglia ricorrente di avere altri partner. "Una mancanza di intesa che rappresenta una spia dell'assenza di comunicazione", osserva l'esperto.

5. Litigi troppo frequenti 
Infine, litigare è normale e, nelle giuste dosi, serve anche a mantenere viva la relazione. Ma se il rapporto diventa un vortice soffocante di discussioni, scatenate oltretutto sempre dagli stessi motivi, è bene fermarsi a riflettere per capire quali sono le ragioni che impediscono la comunicazione e che portano a non voler più accettare compromessi. 


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Fonte: http://www..repubblica.it/

domenica 8 febbraio 2015

Come sopravvivere alla suocere



Secondo i dati Istat, la nostalgia dei genitori è uno dei fattori di maggior attrito tra marito e moglie (31%), peggiorato dalla frequente invadenza dei suoceri nella vita di coppia (27%). Ecco perché, secondo l’Ami (Associazione avvocati matrimonialisti italiani), un matrimonio su tre entra in crisi per l'eccessiva interferenza da parte dei genitori di lui o di lei. Ma quali sono le ragioni per cui i rapporti con i suoceri sono così difficili? E come riuscire a trovare il giusto equilibrio senza mettere in crisi né la coppia, né la relazione affettiva con i genitori?


Il terzo cordone ombelicale. Le cause dello storico disaccordo tra suocera e nuora possono essere molteplici, ma in genere si parte sempre dalla rivalità. Quando un figlio va via di casa può succedere che una madre faccia fatica ad accettarlo, che veda la nuora come la donna che le ha portato via "il suo bambino", rivendicandone pertanto con ogni mezzo le attenzioni. "In molti casi, è venuto a mancare il naturale svincolo dei figli dalla madre o in genere dalla famiglia d'origine", spiega Lucia Paturzo, psicoterapeuta specializzata in psicologia della famiglia presso il consultorio familiare di Udine, nonché "docente" nei primi corsi per imparare a diventare bravi suoceri. "Ci può essere anche una reciproca dipendenza emotiva per cui si fa fatica a staccarsi dalla famiglia e ciò ha dei risvolti pratici che complicano la vita di coppia". È quanto succede a Mara, 35 anni di Milano: "Mi rendo conto che per ogni decisione che devo prendere ho bisogno di consultarmi con i miei genitori e questo dà molto fastidio a mio marito perché si sente sminuito specie se poi le loro opinioni divergono e io non sono d'accordo con la sua posizione ma con quella della mia famiglia", racconta. In effetti, a volte sono i figli stessi a non sapersi staccare ma trovano terreno fertile se anche i genitori sono ancora molto legati. "In molti casi, si fa fatica a tagliare il cosiddetto terzo cordone ombelicale, cioè quello che coincide con l'uscita dei figli dalla casa di origine", aggiunge la psicoterapeuta. "Accade perché i genitori non vogliono perdere il contatto con i figli che inevitabilmente cambia perché ci sono nuove esigenze della famiglia che si sta formando".  

L'invadenza non richiesta. Spesso, però, i problemi nascono più per l'invadenza da parte dei suoceri. "Anche se è a fin di bene perché vogliono rendersi utili, l'eccessiva intromissione crea conflittualità all'interno della coppia. Ma questo accade quando non vengono definiti confini chiari. Se non ci sono regole i genitori possono assumere dei ruoli impropri e sconfinare", avverte la psicoterapeuta. È la storia di Maurizia e Michele che alla fine hanno divorziato. "Siamo stati fidanzati per 8 anni e non ci sono mai stati problemi nei rapporti con i suoi", racconta Maurizia, 41 anni, di Roma. "Dopo il matrimonio, però, sono iniziate le invasioni di mia suocera: veniva a casa e spostava i soprammobili oppure si metteva in cucina e preparava la cena al posto mio". Ma la situazione è degenerata dopo la nascita di nostro figlio: "Non si è più posta nessun limite: me lo toglieva dalle braccia, decideva come vestirlo e non faceva che criticarmi su come lo svezzavo".  E il marito? "Michele non si è mai reso veramente conto dell'invadenza ma anzi gli faceva piacere che la madre fosse tanto presente. Così quando abbiamo iniziato la psicoterapia di coppia è emerso che per lui era più importante salvare il rapporto con la madre anziché quello con me. A quel punto non ho più avuto dubbi e ho chiesto il divorzio".

La sindrome del nido vuoto. Quando i figli si sposano e mettono su famiglia, in genere i genitori sono in età da pensione e magari stanno vivendo a loro volta altri distacchi che pesano emotivamente, per esempio la malattia o addirittura la morte dei loro genitori. "La perdita del lavoro che coincide con il matrimonio di un figlio è qualcosa di molto pesante da gestire perché improvvisamente ci si sente senza più un ruolo: non si è più lavoratori e nemmeno genitori a tempo pieno", spiega Paturzo. "Se poi hanno perso anche i loro genitori, i figli restano gli unici a cui rivolgere le loro attenzioni".

Quando i suoceri fanno i baby-sitter. Stando agli ultimi dati Istat, il 55% delle donne che lavora affida i figli ai propri genitori o ai suoceri. "È chiaro che una scelta di questo tipo espone al rischio di un'invadenza sia fisica che emotiva perché, anche non volendo, chi si prende cura dei tuoi figli ha voce in capitolo, dal momento che se i genitori non sono presenti, sono loro ad assumersi la responsabilità di prendere piccole decisioni e iniziative nel quotidiano", dice Paturzo. "Quando sono nati i gemelli, non potendo contare sull'aiuto dei miei genitori che vivono in un'altra città, ho chiesto supporto a mia suocera", racconta Luisa, 40 anni di Foggia. "All'inizio si comportava con una certa riservatezza ma poi pian piano la situazione è cambiata. E, più che la nonna, sembrava lei la mamma dei miei bambini. Tutto ciò che facevo io non andava bene. Ho retto per un po', poi sono crollata. Ho avuto bisogno di farmi aiutare da una psicologa. Il primo consiglio che mi ha dato è stato quello di cercare una baby sitter, cosa per me molto difficile da fare anche perché ho dovuto convincere mio marito, che all'inizio ha fatto fatica ad accettare il fatto che io descrivessi sua madre come invadente e prepotente. Alla fine ci sono riuscita e ho riconquistato il mio ruolo di mamma". Una situazione che si sarebbe potuta evitare stabilendo fin dall'inizio le regole del gioco e i rispettivi ruoli. "Per evitare tensioni il segreto è parlare, spiegarsi e motivare, reciprocamente, il perché di un comportamento o di una scelta. In fondo non è una gara a chi è più bravo, l'obiettivo è la serenità dei bambini", suggerisce la psicoterapeuta. 

Quando c'è dipendenza economica. Complice la crisi, molte giovani coppie decidono di andare a convivere anche senza aver raggiunto l'indipendenza e addirittura continuano a rimanere economicamente dipendenti dalla famiglia di origine.  In queste circostanze, i suoceri esercitano un certo potere nella vita dei figli, ne controllano le spese e in alcuni casi si sentono quasi "in diritto" di interferire in quelle decisioni che riguardano strettamente la coppia. "Purtroppo sia io che il mio compagno abbiamo un lavoro precario e siamo costretti ad accettare l'aiuto dei suoi genitori", racconta Miranda, 27 anni di Torino. "Ma il fatto è che loro entrano in casa nostra anche quando non ci siamo: è vero ci portano la spesa, ma poi ci criticano se trovano le cose fuoriposto o si accorgono che non abbiamo mangiato la cena che ci hanno preparato. Così, alla fine litighiamo anche io e lui perché secondo me, anche se ci aiutano economicamente, non dobbiamo essere del tutto asserviti mentre lui si sente in dovere di assecondarli".  

Il punto di vista dei suoceri. Ogni tanto bisognerebbe mettersi nei panni dei suoceri e provare a immaginare come ci si può sentire quando, dopo aver cresciuto un figlio, lo vedi andar via di casa e spesso devi accontentarti delle briciole. "Può essere d'aiuto pensare che un giorno anche tu avrai figli e immaginare i tuoi possibili sentimenti: gelosia, timore di perdere ciò che ami incondizionatamente, paura della solitudine, nostalgia", suggerisce l'esperta. Così, puoi capire meglio il loro punto di vista ed esprimere solidarietà per ciò che provano senza per questo giustificare eventuali comportamenti invadenti.

Come essere dei buoni suoceri. È semplice: basta solo lasciar andare i figli e imparare ad avere un rapporto con la nuova coppia che si è formata. "È importante rivolgersi alla coppia e non solo al figlio in tutte le occasioni e soprattutto per gli inviti. E poi bisogna rivalutare il proprio rapporto a due che è stato trascurato negli anni per crescere i figli". Perciò, vivere il distacco guardando anche i lati positivi come il fatto di aver riacquistato il proprio tempo e di poter dedicarsi ai propri interessi personali senza mettersi in attesa di diventare nonni. Quanto all'aiuto, meglio offrirlo senza imporlo.

Come essere una buona nuora. Mettersi nei panni della suocera, è il primo passo per capirla così come evitare di fare paragoni con tua madre. "È importante che i figli smettano di sentirsi tali e si considerino adulti capaci di camminare con le proprie gambe. E poi bisogna darsi il permesso di essere se stessi con i suoceri esprimendo i propri pensieri nel rispetto degli altri, il che significa avere anche la possibilità di dire di no", suggerisce Paturzo. In ogni caso, mai mancare di rispetto ai genitori del partner perché colpiresti anche lui. "E poi comunicare: in genere, uno dei due fa fatica a parlarne o preferisce non farlo per la pace familiare, ma questi silenzi si accumulano mentre parlarne subito è importante per sciogliere quel nodo".

Diari online e corsi di suoceritudine. Intanto, l'esasperazione ha trovato nuove valvole di sfogo on line tanto che un gruppo di nuore, prese dalla disperazione, c'è anche una pagina Facebook dedicata a suocere e nuore. Ma c'è anche chi ha ideato dei corsi di formazione per diventare bravi suoceri. Per il momento, sono stati organizzati a Udine, in concomitanza con i corsi per i fidanzati della Curia. "Sono dei corsi ai quali partecipano i genitori dei fidanzati in cui vengono affrontate le varie fasi del ciclo di vita della famiglia. Si cerca di far capire che i genitori devono essere dei suggeritori discreti ma non pressanti, devono saper mantenere la giusta distanza pur comunicando affetto ma senza invadere gli spazi altrui", racconta Paturzo che continua a tenere questi corsi proprio a Udine. Di recente anche altri comuni hanno iniziato a interessarsi al problema e a Gemona, per esempio, sta per partire un'iniziativa simile per le coppie che si sposano civilmente e per le loro rispettive famiglie d'origine.


                                                                

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mercoledì 4 febbraio 2015

Anche i giovani padri a rischio depressione!





Anche i giovani padri sarebbero a rischio di un significativo aumento di sintomi depressivi in co-occorrenza del cambiamento del loro ruolo familiare.
Uno studio longitudinale recentemente pubblicato sulla rivista Pediatrics lo riporta e sottolinea la necessità di guardare criticamente all’emergenza di tale fenomeno con adeguati e tempestivi interventi di screening e monitoraggio per poi rispondere al bisogno dei giovani padri.
Secondo i dati dello studio (che ha coinvolto un campione di padri americani diventati genitori per la prima volta nella fascia di età dai 24 ai 32 anni e che vivevano in casa con i figli), i sintomi depressivi aumentavano mediamente del 68% durante i primi cinque anni di paternità (da sottolineare che ciò non significa che si debba poi necessariamente sviluppare un conclamato episodio depressivo maggiore o disturbo dell’umore – aspetto non considerato dallo studio che utilizzando questionari self-report e non colloqui clinici/SCID-I).
La ricerca ha utilizzato dati raccolti da 10.623 giovani uomini coninvolti nello studio National Longitudinal Study of Adolescent Health (Add Health) monitorati e valutati durante l’adolescenza fino alla transizione nell’età adulta; in particolare sono state utilizzate come misure di outcome una batteria di scale per la valutazione della depressione, con riferimento al Center for Epidemiologic Studies Depression Scale.
E’ interessante notare che lo studio mette in evidenza che sono proprio i giovani padri che vivono in casa insieme ai figli a sviluppare un aumento dei sintomi depressivi nei primi cinque anni di paternità; va sottolineato che coloro che invece non vivevano quotidianamente nella stessa casa con i figli presentavano maggiori sintomi depressivi prima della nascita del figlio che invece iniziano a diminuire durante gli anni della paternità( da riconoscere che tale sottocampione è però minore in termini di numerosità rispetto al campione di padri che convivono con i loro figli).


La depressione genitoriale nei padri ha chiaramente anche un effetto negativo sui piccoli figli in termini di caratteristiche delle interazioni genitore-figlio tra cui maggiori punizioni corporali, minori interazioni e maggiore stress riportato anche nella relazione.



                                                         
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Fonte: http://www.stateofmind.it/