giovedì 16 aprile 2015

Figli poco studiosi? Colpa del DNA



Se bambini e ragazzi sono poco motivati nei confronti della scuola è colpa anche del loro Dna. Uno studio pubblicato sulla rivista Personality and Individual Differences ha infatti dimostrato che una percentuale variabile tra il 40 e il 50% delle differenze nella motivazione scolastica dei ragazzi dipende dai geni.

Per arrivare a questa conclusione gli autori dello studio, guidati dalla ricercatrice del Dipartimento di Psicologia della Goldsmiths University of London Yulia Kovas, hanno raccolto informazioni riguardanti più di 13 mila gemelli di età compresa tra i 9 e i 16 anni. Tutti i partecipanti hanno compilato questionari appositamente pensati per la ricerca, e gli autori hanno confrontato le risposte fornite dai fratelli, partendo dal presupposto che tanto più sarebbero state simili le risposte dei gemelli identici – che condividono tutto il loro patrimonio genetico – tanto più forte sarebbe stata l'indicazione dell'esistenza di un'influenza dei geni sull'oggetto della risposta.

Ne è emerso che fattori genetici possono giocare un ruolo fondamentale nella scarsa motivazione dei ragazzi allo studio, tanto fondamentale da superare quello dei fattori ambientali. “Abbiamo scoperto che ci sono differenze nella personalità che gli individui ereditano che esercitano un forte impatto sulla motivazione”, spiega Stephen Petrill, coautore dello studio, sottolineando che nei 6 diversi paesi in cui è stato condotto lo studio (Regno Unito, Canada, Giappone, Germani, Russia e Stati Uniti) sono stati ottenuti risultati piuttosto simili nonostante le differenze sia a livello culturale che a livello di sistemi scolastici.

Petrill sottolinea però anche come ciò non significhi che ci sia un gene che stabilisce se a un bambino piacerà andare a scuola oppure no. La scoperta non significa nemmeno che genitori e insegnanti non giochino nessun ruolo nella motivazione dei ragazzi. “Dobbiamo assolutamente incoraggiare gli studenti e motivarli in aula – conclude infatti il ricercatore, docente di psicologia all'Ohio State University – Ma questi risultati suggeriscono che i motivi per cui dobbiamo farlo potrebbero essere più complicati rispetto a quanto pensassimo”.




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Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/


lunedì 13 aprile 2015

I pettegolezzi aiutano a far carriera




Un`arma affilatissima: il pettegolezzo sul posto di lavoro è uno strumento per mettere in cattiva luce i colleghi agli occhi dei superiori. Ed è tanto più efficace, a differenza di ciò che comunemente si pensa, se le affermazioni negative vengono effettuate durante le riunioni formali di lavoro, piuttosto che durante i momenti informali in cui spesso impiegati e superiori si trovano a condividere pause caffè o pause pranzo al di fuori dei loro ruoli. A sostenerlo uno studio condotto dall`Indiana University (Stati Uniti) e pubblicato su Journal of Contemporary Ethnography.
Dall`analisi di 13 incontri formali di lavoro durati 40 minuti l`uno è emerso infatti che il chicchiericcio negativo nei confronti degli assenti era più sottile e indiretto - sul genere "chi ha orecchie per intendere intenda" - e persisteva nel tempo, risultando più efficace, mentre nelle situazioni informali le note negative a carico dei colleghi venivano espresse in maniera più diretta e duravano meno, risultando meno convincenti.

                                                      
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venerdì 3 aprile 2015

Gli ansiosi sono più intelligenti




Pensare troppo, rimuginare, sentirsi in apprensione e preoccupati per gli eventi passati, in corso e futuri, sono elementi comuni a chi vive in un continuo stato di ansia. Nonostante questi comportamenti abbiano spesso una connotazione negativa e vengano vissuti con intenso malessere da parte di chi li vive e di chi vi sta intorno, una ricerca psicologica svolta in Canada su di un gruppo di studenti ha scoperto che i grandi “ruminatori mentali” sono in realtà mediamente più intelligenti di chi vive in pace con se stesso e tiene a bada le proprie emozioni. L’intelligenza coinvolta è quella linguistico-verbale, ovvero la capacità di parlare e scrivere con facilità usando i giusti termini, saper spiegare e convincere, insegnare e avere padronanza di sintassi e uso pratico della lingua, qualità spesso accompagnate da un uso umoristico delle parole.
 
Facoltà cognitive iperattive e sentimenti negativi
Lo studio è partito da un gruppo di studenti canadesi, messi alla prova dai ricercatori della Lakehead University nello stato dell’Ontario. I 126 giovani sono stati sottoposti a test di intelligenza, e a diversi questionari e prove che ne tracciavano i livelli di ansia, depressione, timidezza, paura, rimuginìo (la tendenza a ripensare ossessivamente alle situazioni passate) e ruminazione mentale (ancora una volta un pensiero ossessivo, ma rivolto agli eventi futuri). Si tratta di comportamenti che scatenano una iperattivazione delle facoltà cognitive e spesso portano chi ne soffre a provare sentimenti negativi. I risultati degli studiosi sono stati chiari: al salire di preoccupazioni e ruminazione, aumentavano però anche i livelli e i risultati nei test di intelligenza verbale. Lo stesso legame è stato collegato anche alla depressione: chi mostrava segni conclamati di tale patologia psicologica, aveva ancora una volta ottimi risultati nei test intellettivi legati alla lingua.
 
Una ossessione trasformata in abilità ancestrale
Per i ricercatori, esiste dunque una visione positiva delle ansie tipiche di chi pensa troppo, ed è quella che passa proprio dalla loro intelligenza, che li porterebbe a una maggiore abilità di analisi rispetto agli altri, come spiega alla rivista scientifica Personality and Individual Differences uno di loro: “È possibile che gli individui con una maggiore intelligenza linguistico-verbale siano più abili nell’analizzare gli eventi presenti e futuri nel dettaglio e che proprio questa loro caratteristica li esponga a rimuginìo e ruminazione”. In più, commentano ancora gli studiosi, dietro a questi comportamenti vi sarebbe anche una motivazione ancestrale: è proprio questo tipo di approccio ad aver permesso in un certo senso ai nostri avi di sopravvivere, anticipando i pericoli grazie alla sensazione di apprensione e preoccupazione. La tendenza all’ansia e a sovraesporsi ai pensieri negativi e ripetitivi va però controllata: nel lungo periodo, spiegano ancora i ricercatori, tali comportamenti possono portare a un abbassamento delle difese immunitarie esponendo maggiormente chi ne soffre alle malattie.



Fonte: http://www.corriere.it/