sabato 14 maggio 2016

La psicoterapia meglio dei farmaci...






La psicoterapia cognitivo-comportamentale: 
La psicoterapia cognitivo-comportamentale è un percorso di trattamento dei disturbi psicologici che mira ad alleviare la sofferenza emotiva attraverso la modifica di schemi mentali e comportamenti controproducenti. La terapia cognitivo-comportamentale prevede incontri settimanali per una durata media di tre-sei mesi che si può estendere fino a dodici mesi in casi di grave sofferenza emotiva.
Il termine del percorso viene eventualmente seguito da alcune sedute di controllo. Gli obiettivi generali della psicoterapia cognitivo-comportamentale sono: (1) identificare regole, credenze, stili di pensiero e comportamenti che generano e mantengono il malessere emotivo, (2) imparare a riconoscerli nel momento in cui si attivano, (3)modificarli e sostituirli con pensieri e comportamenti alternativi e più utili.
Attraverso queste tre tappe la psicoterapia guida il cliente verso un cambiamento che permetta di raggiungere obiettivi personali, migliorare la qualità delle relazioni con gli altri e ridurre la propria sofferenza emotiva. La psicoterapia cognitivo-comportamentale si avvale di tecniche basate sul colloquio clinico, esercizi comportamentali e tecniche immaginative. L’acquisizione stabile delle nuove strategie richiede sempre un esercitazione continua che avviene attraverso compiti da svolgere tra le sedute.

A.c.t. (“Terza generazione” Cognitivo-Comportamentale)
Acceptance and Commitment Therapy, o ACT (“ACT” si pronuncia come singola parola, non come lettere separate) è una nuova forma di psicoterapia, con solide basi scientifiche, e fa parte di quella che viene definita la “terza onda” della terapia cognitivo comportamentale (Hayes, 2004). L’ACT è basata sulla Relational Frame Theory (RFT): un programma di ricerca di base sulle modalità di funzionamento della mente umana (Hayes, Barnes-Holmes, e Roche, 2001). Questa ricerca suggerisce che molti degli strumenti che le persone utilizzano per risolvere i problemi, conducono in una trappola che crea sofferenza.
L’ACT prende in considerazione alcuni concetti non convenzionali:
  • La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona.
  •  Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
  • Il dolore e la sofferenza sono due differenti stati dell’essere.
  • Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza.
  • Si può vivere un’esistenza dettata dai propri valori, iniziando da ora, ma per farlo si dovrà imparare come uscire della propria mente ed entrare nella propria vita.
In definitiva, ciò che viene richiesto dall’ACT, è un fondamentale cambiamento di prospettiva: uno spostamento nel modo in cui viene considerata la propria esperienza personale.
I metodi di cui si avvale forniscono nuove modalità per affrontare le difficoltà di natura psicologica e cercano di cambiare l’essenza dei problemi psicologici e l’impatto che essi hanno sulla vita.

L’Acceptance and Commitment Therapy si basa su tre punti fondamentali:
Mindfulness: è un modo di osservare la propria esperienza che, per secoli, è stato praticato in oriente attraverso varie forme di meditazione. Recenti ricerche nella psicologia occidentale, hanno provato che praticare la mindfulness può avere benefici psicologici importanti (Hayes, Follette, & Linehan, 2004). Attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso; si può comprendere che ci sono molte altre cose da fare nel momento presente, oltre a cercare di regolare i propri contenuti psicologici.
Accettazione: si basa sulla nozione che, di norma, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. L’ACT opera una chiara distinzione tra dolore e sofferenza. Per la natura del linguaggio umano, quando ci si trova di fronte ad un problema, la tendenza generale è di capire come attaccarlo.
Capire come liberarci dagli eventi indesiderati (come predatori, freddo, inondazioni) è sempre stato un fattore essenziale per la sopravvivenza della razza umana; tuttavia il tentativo di usare questa stessa organizzazione mentale dinanzi alle proprie esperienze interne non funziona. Quando ci si imbatte in un evento interno doloroso infatti, si tende a fare ciò che si fa solitamente: organizzarlo e risolverlo per sbarazzarsene. In realtà però le esperienze interne non sono uguali agli eventi esterni e i metodi per cercare di eliminarle non funzionano. Deve essere chiaro che l’accettazione, come viene intesa in questo contesto, non è un atteggiamento nichilistico auto-distruttivo ; né un tollerare il proprio dolore, o il sopportarlo, ma è un vitale e consapevole contatto con la propria esperienza.
Impegno e vita basata sui valori: quando si è coinvolti nella lotta contro i problemi psicologici spesso si mette la vita in attesa, credendo che il proprio dolore debba diminuire, prima di iniziare nuovamente a vivere. L’ACT invita a uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita intraprendendo azioni impegnate in direzione di quelli che sono i propri valori. 
Emdr (eyes movement desensitization and reprocessing)

EMDR è un approccio complesso ma ben strutturato che può essere integrato nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia. Considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. Questa metodologia utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali. Si basa su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione.  
L’EMDR vede la patologia come informazione immagazzinata in modo non funzionale e si basa sull’ipotesi che c’è una componente fisiologica in ogni disturbo o disagio psicologico.  Quando avviene un evento ”traumatico” viene disturbato l’equilibrio eccitatorio/inibitorio  necessario per l’elaborazione dell’informazione.  Si può affermare che questo provochi il ”congelamento” dell’informazione nella sua forma ansiogena originale, nello stesso modo in cui è stato vissuto. Questa informazione ”congelata” e racchiusa nelle reti neurali non può essere elaborata e quindi continua a provocare patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici.
 I movimenti oculari saccadici e ritmici usati con l’immagine traumatica, con le convinzioni negative ad essa legate e con il disagio emotivo facilitano la rielaborazione dell’informazione fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. Nella risoluzione adattiva l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo. 

Il training autogeno
Il training autogeno, così come proposto e divulgato dal fondatore del metodo J.H.SCHULTZ (1932), è oggi uno dei metodi psicoterapici più facilmente impiegabili nel trattamento di gran parte delle turbe neuropsichiche.
Il t.a. è uno strumento ormai così diffuso che di esso si avvalgono sia le persone bisognose di riequilibrare funzioni alterate, sia le persone “sane” che desiderano migliorare la propria qualità di vita.
“Trainig” = allenamento
“Autogeno”= che si genera da sé
Per comprendere che tipo di allenamento è quello che riguarda il t.a., bisogna rifarsi al concetto di commutazione che vuol dire cambiare uno stato di cose ormai stabilmente strutturato; dal punto di vista fisiologico cambiano infatti le relazioni fra le strutture del sistema nervoso, soprattutto a livello neurovegetativo. Dal punto di vista psicologico, commutare significa cambiare atteggiamenti mentali radicati, usare in modo diverso il pensiero, l’attenzione, la concentrazione; nella vita quotidiana ci si addestra a fare qualcosa, nel t.a. ci si avvicina verso il non fare.
Con l’allenamento del t.a. conquistiamo la capacità di staccarci dalla passione di agire , di operare sulla realtà per adattarla ai nostri fini: nel t.a. ci si allena a non allenarsi!
La pratica del t.a. infatti consiste in un apprendimento graduale di una serie di esercizi di concentrazione psichica passiva, particolarmente studiati e concatenati, allo scopo di portare progressivamente al realizzarsi di spontanee modificazioni del tono muscolare, della funzionalità vascolare, dell’attività cardiaca e polmonare, dell’equilibrio neurovegetativo e dello stato di coscienza (L.Peresson).
I principali risultati che si possono ottenere con la pratica del t.a. sono tre:  equilibrio neurovegetativo, stato di calma e modifiche di personalità.

In definitiva, il Training Autogeno si può  definire come:
“una psicoterapia breve, fondata sui principi dell’ideoplasia e della concentrazione psichica passiva, che consente di realizzare, mediante uno speciale allenamento psicofisico, l’equilibrio neurovegetativo, la calme e positive modificazioni di personalità.”

Desensibilizzazione sistematica:
Il nucleo della teoria della DS formulato da Wolpe afferma che: se è possibile fare in modo che una risposta antagonista all’ansia compaia alla presenza dello stimolo ansiogeno, in modo tale che essa provochi l’eliminazione parziale o totale della risposta d’ansia, si viene ad indebolre il legame esistente tra questo stimolo e l’ansia stessa.
Gli elementi che costituiscono la desensibilizzazione sistematica cono: l’individuazione e l’utilizzazione di stimoli che producono risposte in grado di inibire l’ansia, il graduale passaggio da situazione-stimolo meno ansiogena a situazione-stimolo più ansiogena, la sostituzione di risposte indicatrici di minore ansia a risposte indicatrici di una ansia maggiore nei confronti di una stessa situazione stimolo.
Quindi:
1 - L’addestramento al rilassamento
2 - La costruzione di una gerarchia indivudualizzata di stimoli ansiogeni
3 - L’abbinamento degli item della gerarchia con lo stato di rilassamento (desensibilizzazione sistematica vera e propria).
Molti dati sperimentali dimostrano che la desensibilizzazione sistematica è stata usata con successo nel trattamento di un’ampia varietà di disturbi fobici, come la paura delle altezze, della guida dell’automobile, di diversi animali, degli esami, di parlare  in pubblico, di volare, dell’acqua, di figure autoritarie, delle iniezioni, della folla ed altre.