mercoledì 31 dicembre 2014

La Tv fa male ad i nostri Figli



La tv non giova allo sviluppo dei bambini: a sostenerlo gli studiosidell'American Academy of Pediatrics (AAP) in una ricerca, condotta su bimbi di 2 anni, pubblicata su Pediatrics. Secondo lo studio l'uso eccessivo di supporti elettronici e in particolare della televisione, anche quella definita «educativa», nuoce alla stimolazione dei più piccoli che imparano molto di più dai giochi fatti «dal vivo» piuttosto che dai programmi tv, anche se pensati appositamente per loro.

Due ore di tv al giorno per i bimbi di 2 anni - ricercatori dell'AAP spiegano che il 90% dei genitori permette ai propri figli di età inferiore ai 2 anni di usare la tv col risultato che, in media, i bambini di questa età guardano programmi televisivi per 1-2 ore al giorno e che a partire dai 3 anni quasi un terzo di loro ha la tv in camera da letto. E i genitori che credono che la tv educativa sia «molto importante per un sano sviluppo» hanno il doppio delle probabilità di lasciare la televisione accesa per la maggior parte della giornata. 

Costruzioni e pentoline, ma anche bambolotti, pelouches e macchinine -Più della tv - anche quella educativa - è il gioco dal vivo a insegnare ai bambini a pensare in modo creativo, a risolvere problemi e a sviluppare capacità motorie. La presenza dei genitori davanti alla televisione che spiegano quello che sta accadendo nel video può aiutare i piccoli nella comprensione di ciò che stanno guardando, spiegano i pediatri, ma la maggior parte delle volte i piccoli vengono lasciati soli davanti allo schermo. E poi, di sera, l'uso della tv può portare i piccoli ad andare a letto tardi, rendendo il risposo notturno irregolare o scarso. E anche quando a essere impegnati dalla tv sono i genitori, gettare sempre un occhio ai piccoli: la tv, infatti, distrae gli adulti e l'interazione con i più piccoli ci rimette. 

Quali i consigli per i genitori? Ridurre al minimo l'uso della tv e favorire i giochi «dal vivo», sfruttando ogni occasione: se la mamma prepara la cena, è bene che i piccoli la «aiutino» giocando, magari, con le loro stoviglie di plastica. E niente tv nella camera da letto dei bambini.





Fonte; http://salute24.ilsole24ore.com/

lunedì 29 dicembre 2014

Come sposare la persona giusta



Siete stati assaliti, come scriveva Stendhal, da “una specie di febbre che va e viene indipendentemente dalla volontà?”. Molto probabilmente siete innamorati e, presi dal vortice della passione, vi potrebbe capitare di immaginare troppo in fretta la lista nozze. A quanti non è successo infatti di aver compiuto il fatidico passo sull’onda del batticuore, in maniera frettolosa e senza aver testato nel tempo l’effettiva compatibilità con il partner, salvo poi una volta tornati alla realtà essere assaliti dai dubbi e pensare di aver sposato la persona sbagliata? “A volte mi ritrovo a pensarlo. Sono innamorata di mio marito, ma abbiamo due caratteri molto diversi. E questa differenza di fondo si è solo accentuata dopo il matrimonio facendo precipitare il rapporto…”, racconta Sara, impiegata, 34 anni. 

Insomma, se è vero che in una relazione “bisogna andare dove ci porta il cuore”, è anche vero che la scelta del partner da sposare va valutata con grande attenzione per evitare passi falsi e infelicità. Ma quali sono gli aspetti da considerare? “L’amore è un’alchimia che scatta quando tra due persone si crea una sinfonia, una vicinanza emotiva che agisce sulla parte non razionale di noi stessi. E quello è già un primo indicatore importante”, spiega Alberto Pacher, dirigente psicologo dell'Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento. Secondo l’esperto, bisogna inoltre porsi alcune domande, chiedendosi se nella coppia c’è la capacità di condividere e di costruire progetti assieme, oltre che di prestarsi attenzione e di dedicarsi del tempo. Il consiglio dello psicologo è poi di fare tante cose insieme prima di compiere il grande passo, in particolare condividendo tante esperienze di tipo sociale insieme ad altre persone “che permettono di testare la qualità del rapporto”. Insieme alla convivenza “che rappresenta un test attendibile per verificare se la relazione funziona nella quotidianità e anche in una condizione di routine”. 
Huffington Post Uk ha inoltre stilato una lista di dieci consigli su come evitare di sposare la persona sbagliata.

1) Non pensare di poter cambiare l’altro
Molto spesso capita, specie alle donne, di pensare di poter cambiare quello che non piace del partner dopo il matrimonio. Ma si tratta di un approccio sbagliato. Non c’è garanzia, infatti, che il cambiamento avverrà e che soprattutto avverrà in meglio. Per cui, se ci sono aspetti dell’altro con i quali pensiamo di non poter convivere o che riteniamo di non poter accettare allora è meglio non sposarsi.

2) Non scegliere solo sulla base della chimica

La chimica e l’attrazione sono senza dubbio importanti, ma il carattere di una persona lo è ben di più. Un famoso detto, infatti, dice: “La chimica accende il fuoco, ma il carattere lo mantiene vivo”. In altre parole, l’innamoramento non dura per sempre e nel passaggio all’amore il carattere di una persona e la reciproca compatibilità possono rivelarsi molto più importanti per il successo e la durata di un matrimonio.

3) Capire se si è attenti reciprocamente ai propri bisogni emotivi
Sia gli uomini, che le donne hanno propri bisogni emotivi che necessitano di essere ascoltati. Le donne per sentirsi amate chiedono in genere attenzione, affetto e stima, mentre gli uomini desiderano rispetto, capacità di essere rassicurati e di essere confortati. Se la vostra relazione si muove in questa direzione allora siete sulla giusta strada, in caso contrario è meglio lasciar perdere.

4) Chiedersi se si condividono passioni e progetti
Nel matrimonio si può crescere insieme oppure ciascuno percorrendo strade diverse. Condividere progetti e passioni aumenterà le chance di crescere insieme nel matrimonio. Per cui prima di sposarsi, occorre chiedersi: Cosa appassiona il partner e io rispetto le sue passioni? In questo senso, meglio si conosce se stessi, i proprio valori, le proprie passioni, il proprio stile di vita e più opportunità si avranno di trovare l’anima gemella.

5) Fare sesso prima del matrimonio
Il sesso è una parte fondamentale dell’amore. Se, però, l’intesa sessuale si rivela poco entusiasmante sin dall’inizio e il partner non sembra molto interessato al tema ed è un sostenitore della teoria secondo cui il sesso non è poi così importante, perché è il sentimento quello che conta,
allora è meglio lasciar perdere.

6) Farsi alcune domande 

Ci sono alcune domande fondamentali che bisognerebbe porsi prima di sposarsi: Rispetto e ammiro il mio partner? Mi fido di lui? Posso contare su di lui/lei? Mi fido dei suoi giudizi? Mi fido delle sue parole? Posso essere me stesso? Posso esprimere liberamente la mia personalità? Mi sento sereno e tranquillo quando sono in sua compagnia? Se le risposte sono negative allora è meglio prendersi una pausa per capire realmente i propri sentimenti.

7) Prestare attenzione se non ci si sente emotivamente al sicuro

Sentirsi emotivamente al sicuro è la base per un matrimonio duraturo e felice. Se, però, all’interno della relazione non potete esprimere le vostre opinioni e i vostri sentimenti, sentendovi continuamente controllati per quello che fate o che dite, allora è probabile che siate incappati in una relazione tossica. 

8) Essere sinceri sin dall’inizio

Molte coppie compiono l’errore di non essere sinceri sin dall’inizio del rapporto. Occorre invece chiedersi: Cosa ho bisogno di sapere per essere assolutamente certo di voler sposare questa persona? E ancora: Cosa mi preoccupa del mio partner o della nostra relazione? È insomma molto importante identificare le cose che ci preoccupano e ciò su cui si è titubanti per capire se il futuro marito o la futura moglie sono quelli giusti.

9) Non sposarsi per rendere la propria vita migliore

Molte persone scelgono di sposarsi per migliorare la propria vita o l’immagine che hanno di sé a causa di una bassa autostima. Il partner però non può fungere da psicologo e se si hanno problemi con se stessi, se non ci si piace o non si è contenti della propria vita è meglio affrontare questi aspetti prima di sposarsi, senza trascinarli all’interno del matrimonio pensando che il partner potrà risolverli per noi.

10) Occhio alle persone non emotivamente pronte per il matrimonio

Infine, molte persone scelgono partner che non sono emotivamente pronti al grande passo. Ad esempio, è il caso di un uomo troppo legato alla mamma. In questo caso ci si potrebbe ritrovare ad essere in tre nel matrimonio anziché in due. Lo stesso vale per persone troppo occupate a fronteggiare i loro problemi personali, come insicurezze, pensieri negativi, depressione. Infine, consiglia l’Huffington, mai sposare una persona che soffre di dipendenza. Non solo dall’alcol o dalla droga, ma anche da un eccessivo attaccamento al lavoro, a uno sport, a un hobby, ai soldi, al potere, al materialismo, allo status sociale e così via. Chi soffre di dipendenza, infatti, non sarà mai pronto a sviluppare una relazione davvero intima con un’altra persona.




Fonte: Repubblica.it

sabato 27 dicembre 2014

L'ansia è donna!!


Forse perché per prendersi cura della prole ha sempre dovuto avere "fiuto" per i pericoli o forse perché, essendo fisicamente meno prestante della controparte maschile, ha sempre dovuto allenare maggiormente l'istinto a riconoscere i rischi, per poterli prevenire: fatto sta che la donna è davvero più ansiosa dell'uomo. Non è solo un pregiudizio culturale: ora ci sono le prove scientifiche. I ricercatori dell'Istituto di scienze neurologiche del Consiglio nazionale delle ricerche (Isn-Cnr) di Catanzaro, coadiuvati da Gianfranco Spalletta dell’Irccs Fondazione Santa Lucia di Roma, hanno infatti scoperto che le rappresentanti del gentil sesso sono geneticamente più ansiose dei maschietti. Lo studio è stato pubblicato su Social Cognitive and Affective Neuroscience.

I ricercatori hanno rilevato che alla base della predisposizione all'ansia sembrerebbe esserci una variante del gene 5-Httlpr implicato nella regolazione della serotonina (un neurotrasmettitore capace di modulare le emozioni) che causa un aumento della quantità della serotonina stessa, provocando la crescita degli stati ansiogeni. Esaminando l’anatomia cerebrale di centinaia di soggetti sani gli studiosi hanno dimostrato come l’effetto di questa variante genetica a livello cerebrale sia molto influenzata dal sesso: le donne hanno una diversa regolazione e livelli di serotonina maggiori rispetto agli uomini. “Abbiamo scoperto - spiega Antonio Cerasa, ricercatore dell’Isn-Cnr di Catanzaro - che le donne portatrici della variante genetica che conferisce una dis-regolazione della serotonina sono più ansiose degli uomini e questa predisposizione si manifesta, a livello neurobiologico, con un’alterata anatomia di una regione chiave nella regolazione dell’emozione: l’amigdala”.

Il ruolo di questa piccola regione cerebrale è già noto in ambito clinico: “Pazienti affette da disturbi psichiatrici con base ansiosa come bulimia nervosa e disturbi antisociali sono caratterizzate da alterazioni a livello anatomico e funzionale di quest’area - conclude Cerasa -. Grazie ai risultati di questo studio è possibile immaginare che un giorno, non molto lontano, con un semplice esame del sangue e una risonanza magnetica sarà possibile individuare le persone con una più marcata vulnerabilità allo sviluppo di comportamenti patologici”.




Fonte: http://salute24.ilsole24ore.com/

giovedì 25 dicembre 2014

A natale aumenta la depressione



Chi è che non si è mai intristito a Natale e nelle feste cosidette "comandate"?
Nelle feste di Natale i depressi aumentano. Se in generale un italiano su 10 vede tutto nero, in vista delle feste di fine anno, con il loro inevitabile contorno di euforia collettiva, shopping forzato, riunioni con i parenti, per tanti italiani Natale diventa uno 'spettro' che fa paura. E' la 'diagnosi' del neurologo Rosario Sorrentino, che lancia un'idea: psicologi dell'emergenza in aiuto dei depressi da Natale. 

''Mai come in questo periodo - sottolinea Sorrentino - si registra un'incidenza così alta di depressione, a causa del cambio di stagione e delle abitudini, della riduzione della luce e soprattutto del confronto fra l'euforia collettiva e il proprio malessere. Questo clima di felicità a tutti i costi - spiega - aggrava il disagio psichico presistente, la persona si avvita su se stessa, guarda in maniera pessimistica il proprio passato e si sente sola. Le festivita' vengono, vengono vissute come uno spettro, perche' spesso aggravano la 'sindrome del nido vuoto'''. Infatti, a fare piu' paura man mano che si avvicina Natale e' ''la solitudine, vissuta come una iattura. Ecco allora che ci si deprime''. 
''Invece - e' l'invito dello specialista - bisognerebbe approfittare del Natale per riappropriarsi della propria interiorita' e vivere la solitudine come un'opportunita' di riflessione. Magari pensando - suggerisce - che chi corre in giro a fare regali, o passa da una cena di colleghi a una di parenti e' solo 'condannato' ad apparire felice, ma in realta' e' vittima di un elevato carico di stress''. Non solo. Secondo il neurologo, un aiuto ai 'depressi da Natale' potrebbe arrivare dagli psicologi dell'emergenza. ''Sarebbero utili centri di ascolto sul territorio, dove possa recarsi chi ne ha bisogno, anche solo per parlare, prima che possa compiere gesti drammatici''. 




Fonte: http://www.italiasalute.it/


domenica 21 dicembre 2014

Il senso di colpa fa ingrassare!



Mettersi a tavola senza sentirsi in colpa. Al contrario, rimuginare continuamente sul proprio peso, sulla linea che si rischia di perdere, farà ingrassare anche se quella che abbiamo davanti è una insalata scondita. Parola dei ricercatori dell'Utrecht University in Olanda che sulla rivista Psychology & Health mettono nero su bianco una regola per non prendere peso: un rapporto equilibrato con il cibo è il modo migliorare per affrontare una dieta e comunque per mantenersi in forma. Fin qui niente di nuovo.
 I ricercatori hanno dimostrato, esperimenti alla mano, che farsi condizionare psicologicamente sul cibo fa perdere ogni sfida in partenza, anzi rischia di ribaltare i risultati di ogni buona intenzione. Chi si sente colpevole di fronte al cibo avrà una tendenza maggiore a mangiare di più e a mangiare cibi più grassi, per poi di conseguenza ad ingrassare ed alimentare un circolo vizioso....MIGLIORA LE TUE EMOZIONI! Vai da uno Psicologo a Pescara o Chieti





Fonte: salute24.ilsole24ore.com/
Psicologo ansia Pescara

sabato 20 dicembre 2014

Le emozioni sono contagiose anche su Facebook!


Nel mondo reale le emozioni sono letteralmente contagiose. Cosa succede, invece, quando positività e negatività sono condivise nella realtà virtuale? A rispondere per la prima volta a questa domanda è uno studio condotto dagli esperti della Cornell University, dell'Università della California di San Francisco e di Facebook, secondo cui gli stati d'animo si possono trasmettere anche attraverso aggiornamenti di stato e altri contenuti condivisi attraverso i social network.

Per arrivare a questa conclusione gli autori della ricerca, pubblicata su Pnas, hanno manipolato la quantità di contenuti positivi e negativi che apparivano sulle bacheche di oltre 689 mila utenti di Facebook selezionati casualmente. Per rispettare la privacy degli individui coinvolti i ricercatori non hanno mai potuto visualizzare il contenuto esatto dei post presenti nei loro profili, ma hanno avuto a disposizione dati sulla presenza al loro interno di parole positive e di parole negative. In base a queste informazioni è stato scoperto che anche a giorni di distanza dal momento in cui venivano condivise le emozioni che pervadevano le bacheche degli utenti era strettamente associato a quelle riscontrabili nei profili dei loro contatti. “Le persone cui è stato sperimentalmente ridotto il numero di contenuti positivi nella loro bacheca di Facebook, per una settimana, hanno usato più parole negative nei loro aggiornamenti di stato – spiega Jeff Hancock, responsabile dello studio – Quando la negatività delle notizie veniva ridotta si è realizzato il fenomeno contrario: negli aggiornamenti di stato delle persone venivano utilizzate molte più parole positive”.

Non solo, i ricercatori hanno anche osservato una sorta di crisi di astinenza: “le persone che erano esposte a un numero inferiore di contenuti emotivi nelle loro bacheche erano in generale meno espressive nei giorni successivi – racconta Hancock – Questa osservazione, e il fatto che le persone fossero emotivamente più positive in risposta ad aggiornamenti con emozioni positive da parte dei loro amici, è in contrasto con la teoria che suggerisce che vedere post positivi dei propri amici su Facebook possa in qualche modo influenzarci negativamente”. Niente invidie, insomma, anzi. Ad influenzare negativamente l'umore di un utente di Facebook sono gli amici che condividono contenuti meno positivi.





Fonte: salute24.ilsole24ore.com/



mercoledì 17 dicembre 2014

Il cervello innamorato...



Helen Fisher spiega in un’intervista a Repubblica che i sentimenti sono come una droga . E se stiamo male è perché di fronte a un trauma si attiva il centro dopaminico della gratificazione. Esiste infatti un sostrato biologico che risponde agli stimoli dell’amore rilasciando dopamina o altre sostanze; “La pena d’amore è come una dipendenza, come la mancanza di una droga. Abbiamo scoperto delle attività in una regione centrale del cervello che è collegata con tutte le dipendenze, non importa se la droga si chiama eroina, nicotina, gioco d’azzardo.
Il centro della dipendenza è collegato con il sistema dopaminico L’amore romantico, o l’innamoramento appassionato, non è un’emozione! Naturalmente, esso coinvolge molti sentimenti  -  ma l’innamorarsi è una pulsione, sorta milioni di anni fa. L’amore passionale è uno dei sistemi cerebrali più forti tra quelli sviluppati dall’animale umano”. Allora, come guarire dalle pene d’amore? ”Queste vanno considerate come una dipendenza dalla quale si vuole uscire. Ciò significa che occorre girare al largo dalla droga. Nessun contatto, né scrivere lettere, non guardare vecchie foto, non telefonare”. Tutto provato scientificamente. Che ne sarà dell’amore in futuro? ”Fra un milione di anni l’amore continuerà ad essere lo stesso di oggi, almeno per quel che riguarda il cervello. Come fra mille anni avremo ancora fame e sete”.
L’antropologa, che da oltre tre decadi studia il rapporto tra innamoramento e attività cerebrali, racconta le sue ricerche: “I sentimenti? Sono una droga”
Helen Fisher è considerata una delle maggiori antropologhe del mondo. “The Brain in Love”, ossia il “cervello in amore”, è da 30 anni al centro della sua ricerca. I traumi dell’innamoramento sono ora al centro di un documentario già pluripremiato del regista Christian Frei, dal titolo Sleepless in New York , che vede proprio la professoressa Fisher tra i suoi protagonisti.
Lei mette in un tomografo computerizzato persone che stanno vivendo un intenso innamoramento, per studiarne il cervello. Perché?
“Nel mio primo libro ho parlato del matrimonio e dei motivi che ci portano a contrarre legami di coppia. Poi ne ho scritto un altro sulle separazioni. E un bel giorno, mentre stavo viaggiando di notte, mi è venuta all’improvviso un’idea: forse abbiamo sviluppato per l’amore tre diversi sistemi cerebrali: uno per l’attrazione sessuale, uno per l’amore romantico e uno per il legame. E forse è nel cervello che bisognerebbe cercare il significato dell’innamoramento”.
Come ha proceduto?
“Il cervello dei soggetti che si erano innamorati da poco era sottoposto a uno stimolo collegato all’amore romantico. Stando nello scanner, dovevano osservare due foto: un ritratto della persona amata e una foto di un individuo della stessa età e dello stesso sesso, che non suscitava particolari sentimenti. Per evitare che i sentimenti amorosi si trasferissero sull’immagine neutrale, venne impartita, come distrattore, una consegna, in modo che il cervello, per così dire, si raffreddasse”.
E come è giunta a risultati utilizzabili?
“L’esperimento durava 12 minuti, senza preparazione e intervista. La persona innamorata stava nella macchina; al di sopra dei suoi occhi era stato collocato uno specchio verso il quale avevamo rivolto la telecamera. I soggetti guardavano per 30 secondi l’immagine della persona amata, poi contavano 30 secondi alla rovescia di sette in sette (trenta, ventitré, sedici…) – una sfida anche per matematici innamorati – quindi fissavano per 30 secondi un’immagine neutrale. Poi sovrapponemmo le scansioni cerebrali dell’immagine positiva a quelle dell’immagine neutrale e filtrammo l’immagine risultante: ora avevamo davanti a noi il “brain in love”, il cervello innamorato. È stato meraviglioso!”.
Cosa ne ha dedotto?
“L’amore romantico, o l’innamoramento appassionato, non è un’emozione! Naturalmente, esso coinvolge molti sentimenti – ma l’innamorarsi è una pulsione, sorta milioni di anni fa. L’amore passionale è uno dei sistemi cerebrali più forti tra quelli sviluppati dall’animale umano”.
La pena d’amore è un’esperienza fisica. Perché?
“La pena d’amore è come una dipendenza, come la mancanza di una droga. È proprio quello che ho voluto dimostrare. Abbiamo scoperto delle attività in una regione cerebrale che è collegata con tutte le dipendenze, non importa se la droga si chiama cocaina, eroina, nicotina, gioco d’azzardo, sesso compulsivo. Il centro della dipendenza è collegato con il sistema dopaminico “.
Abbiamo qualche possibilità di evitarla?
“In realtà, no. Ci sono persone che escono così distrutte da un’esperienza dolorosa da evitare l’amore. Ma il cervello è come un gatto addormentato. Il sistema può scatenarsi nel giro di pochi minuti. La grande maggioranza di noi continua a innamorarsi, almeno tre o quattro volte nella vita”.
Le donne e gli uomini si innamorano in modo diverso?
“In entrambi sono attive le stesse regioni del cervello. L’amore colpisce uomini e donne esattamente nello stesso modo. È come la paura, perlomeno per quanto riguarda il cervello”.
Si supera più rapidamente la pena d’amore, quando si taglia il contatto con l’oggetto del desiderio?
“Sì, la pena d’amore va considerata come una dipendenza dalla quale si vuole uscire. Ciò significa che occorre girare al largo dalla droga. Nessun contatto, non scrivere lettere, non guardare vecchie foto, non telefonare. Il tempo guarisce. La regione del cervello che ha a che fare con il legame è molto attiva quando si viene respinti o lasciati. Ma quanto più ci allontaniamo dal momento del distacco, tanto più questa attività del legame si riduce”.
Che ne sarà dell’amore in futuro?
“Fra un milione di anni l’amore continuerà ad essere lo stesso di oggi, almeno per quel che riguarda il cervello. Fra mille anni avremo ancora fame e sete. Siamo degli animali, perlomeno in certe regioni del cervello”.
L’amore migliora invecchiando?
“Ho sempre amato l’amore. Quello che so come antropologa non ha rovinato per me il mistero dell’innamoramento. Tuttavia, nessuno sopravvive indenne all’amore. Sono stata lasciata e ho vissuto tempi di dolore sconvolgente. Ora ho 69 anni, sono single e spero proprio di potermi innamorare ancora “.



Dr. Luca Di Venanzio
                                                                                                                                                                     
                                                                                                                                                               
Fonte repubblica.it



martedì 16 dicembre 2014

La Psicoterapia, alcune tecniche efficaci


Le psicoterapia cognitivo-comportamentale: 
La psicoterapia cognitivo-comportamentale è un percorso di trattamento dei disturbi psicologici che mira ad alleviare la sofferenza emotiva attraverso la modifica di schemi mentali e comportamenti controproducenti. La terapia cognitivo-comportamentale prevede incontri settimanali per una durata media di tre-sei mesi che si può estendere fino a dodici mesi in casi di grave sofferenza emotiva.
Il termine del percorso viene eventualmente seguito da alcune sedute di controllo. Gli obiettivi generali della psicoterapia cognitivo-comportamentale sono: (1) identificare regole, credenze, stili di pensiero e comportamenti che generano e mantengono il malessere emotivo, (2) imparare a riconoscerli nel momento in cui si attivano, (3)modificarli e sostituirli con pensieri e comportamenti alternativi e più utili.
Attraverso queste tre tappe la psicoterapia guida il cliente verso un cambiamento che permetta di raggiungere obiettivi personali, migliorare la qualità delle relazioni con gli altri e ridurre la propria sofferenza emotiva. La psicoterapia cognitivo-comportamentale si avvale di tecniche basate sul colloquio clinico, esercizi comportamentali e tecniche immaginative. L’acquisizione stabile delle nuove strategie richiede sempre un esercitazione continua che avviene attraverso compiti da svolgere tra le sedute.

A.c.t. (“Terza generazione” Cognitivo-Comportamentale)
Acceptance and Commitment Therapy, o ACT (“ACT” si pronuncia come singola parola, non come lettere separate) è una nuova forma di psicoterapia, con solide basi scientifiche, e fa parte di quella che viene definita la “terza onda” della terapia cognitivo comportamentale (Hayes, 2004). L’ACT è basata sulla Relational Frame Theory (RFT): un programma di ricerca di base sulle modalità di funzionamento della mente umana (Hayes, Barnes-Holmes, e Roche, 2001). Questa ricerca suggerisce che molti degli strumenti che le persone utilizzano per risolvere i problemi, conducono in una trappola che crea sofferenza.
L’ACT prende in considerazione alcuni concetti non convenzionali:
  • La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona.
  • Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
  • Il dolore e la sofferenza sono due differenti stati dell’essere.
  • Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza.
  • Si può vivere un’esistenza dettata dai propri valori, iniziando da ora, ma per farlo si dovrà imparare come uscire della propria mente ed entrare nella propria vita.
In definitiva, ciò che viene richiesto dall’ACT, è un fondamentale cambiamento di prospettiva: uno spostamento nel modo in cui viene considerata la propria esperienza personale.
I metodi di cui si avvale forniscono nuove modalità per affrontare le difficoltà di natura psicologica e cercano di cambiare l’essenza dei problemi psicologici e l’impatto che essi hanno sulla vita.

L’Acceptance and Commitment Therapy si basa su tre punti fondamentali:
Mindfulness: è un modo di osservare la propria esperienza che, per secoli, è stato praticato in oriente attraverso varie forme di meditazione. Recenti ricerche nella psicologia occidentale, hanno provato che praticare la mindfulness può avere benefici psicologici importanti (Hayes, Follette, & Linehan, 2004). Attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso; si può comprendere che ci sono molte altre cose da fare nel momento presente, oltre a cercare di regolare i propri contenuti psicologici.
Accettazione: si basa sulla nozione che, di norma, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. L’ACT opera una chiara distinzione tra dolore e sofferenza. Per la natura del linguaggio umano, quando ci si trova di fronte ad un problema, la tendenza generale è di capire come attaccarlo.
Capire come liberarci dagli eventi indesiderati (come predatori, freddo, inondazioni) è sempre stato un fattore essenziale per la sopravvivenza della razza umana; tuttavia il tentativo di usare questa stessa organizzazione mentale dinanzi alle proprie esperienze interne non funziona. Quando ci si imbatte in un evento interno doloroso infatti, si tende a fare ciò che si fa solitamente: organizzarlo e risolverlo per sbarazzarsene. In realtà però le esperienze interne non sono uguali agli eventi esterni e i metodi per cercare di eliminarle non funzionano. Deve essere chiaro che l’accettazione, come viene intesa in questo contesto, non è un atteggiamento nichilistico auto-distruttivo ; né un tollerare il proprio dolore, o il sopportarlo, ma è un vitale e consapevole contatto con la propria esperienza.
Impegno e vita basata sui valori: quando si è coinvolti nella lotta contro i problemi psicologici spesso si mette la vita in attesa, credendo che il proprio dolore debba diminuire, prima di iniziare nuovamente a vivere. L’ACT invita a uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita intraprendendo azioni impegnate in direzione di quelli che sono i propri valori. 
Emdr (eyes movement desensitization and reprocessing)

EMDR è un approccio complesso ma ben strutturato che può essere integrato nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia. Considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. Questa metodologia utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali. Si basa su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione.  
L’EMDR vede la patologia come informazione immagazzinata in modo non funzionale e si basa sull’ipotesi che c’è una componente fisiologica in ogni disturbo o disagio psicologico.  Quando avviene un evento ”traumatico” viene disturbato l’equilibrio eccitatorio/inibitorio  necessario per l’elaborazione dell’informazione.  Si può affermare che questo provochi il ”congelamento” dell’informazione nella sua forma ansiogena originale, nello stesso modo in cui è stato vissuto. Questa informazione ”congelata” e racchiusa nelle reti neurali non può essere elaborata e quindi continua a provocare patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici.
 I movimenti oculari saccadici e ritmici usati con l’immagine traumatica, con le convinzioni negative ad essa legate e con il disagio emotivo facilitano la rielaborazione dell’informazione fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. Nella risoluzione adattiva l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo. 

Il training autogeno
Il training autogeno, così come proposto e divulgato dal fondatore del metodo J.H.SCHULTZ (1932), è oggi uno dei metodi psicoterapici più facilmente impiegabili nel trattamento di gran parte delle turbe neuropsichiche.
Il t.a. è uno strumento ormai così diffuso che di esso si avvalgono sia le persone bisognose di riequilibrare funzioni alterate, sia le persone “sane” che desiderano migliorare la propria qualità di vita.
“Trainig” = allenamento
“Autogeno”= che si genera da sé
Per comprendere che tipo di allenamento è quello che riguarda il t.a., bisogna rifarsi al concetto di commutazione che vuol dire cambiare uno stato di cose ormai stabilmente strutturato; dal punto di vista fisiologico cambiano infatti le relazioni fra le strutture del sistema nervoso, soprattutto a livello neurovegetativo. Dal punto di vista psicologico, commutare significa cambiare atteggiamenti mentali radicati, usare in modo diverso il pensiero, l’attenzione, la concentrazione; nella vita quotidiana ci si addestra a fare qualcosa, nel t.a. ci si avvicina verso il non fare.
Con l’allenamento del t.a. conquistiamo la capacità di staccarci dalla passione di agire , di operare sulla realtà per adattarla ai nostri fini: nel t.a. ci si allena a non allenarsi!
La pratica del t.a. infatti consiste in un apprendimento graduale di una serie di esercizi di concentrazione psichica passiva, particolarmente studiati e concatenati, allo scopo di portare progressivamente al realizzarsi di spontanee modificazioni del tono muscolare, della funzionalità vascolare, dell’attività cardiaca e polmonare, dell’equilibrio neurovegetativo e dello stato di coscienza (L.Peresson).
I principali risultati che si possono ottenere con la pratica del t.a. sono tre:  equilibrio neurovegetativo, stato di calma e modifiche di personalità.

In definitiva, il Training Autogeno si può  definire come:
“una psicoterapia breve, fondata sui principi dell’ideoplasia e della concentrazione psichica passiva, che consente di realizzare, mediante uno speciale allenamento psicofisico, l’equilibrio neurovegetativo, la calme e positive modificazioni di personalità.”

Desensibilizzazione sistematica:
Il nucleo della teoria della DS formulato da Wolpe afferma che: se è possibile fare in modo che una risposta antagonista all’ansia compaia alla presenza dello stimolo ansiogeno, in modo tale che essa provochi l’eliminazione parziale o totale della risposta d’ansia, si viene ad indebolre il legame esistente tra questo stimolo e l’ansia stessa.
Gli elementi che costituiscono la desensibilizzazione sistematica cono: l’individuazione e l’utilizzazione di stimoli che producono risposte in grado di inibire l’ansia, il graduale passaggio da situazione-stimolo meno ansiogena a situazione-stimolo più ansiogena, la sostituzione di risposte indicatrici di minore ansia a risposte indicatrici di una ansia maggiore nei confronti di una stessa situazione stimolo.
Quindi:
1 - L’addestramento al rilassamento
2 - La costruzione di una gerarchia indivudualizzata di stimoli ansiogeni
3 - L’abbinamento degli item della gerarchia con lo stato di rilassamento (desensibilizzazione sistematica vera e propria).
Molti dati sperimentali dimostrano che la desensibilizzazione sistematica è stata usata con successo nel trattamento di un’ampia varietà di disturbi fobici, come la paura delle altezze, della guida dell’automobile, di diversi animali, degli esami, di parlare  in pubblico, di volare, dell’acqua, di figure autoritarie, delle iniezioni, della folla ed altre.




domenica 14 dicembre 2014

Bambini senza freni, cosa fare....



Con l'etichetta diagnostica “disturbo da deficit di attenzione/iperattività" (DDAI) si fa riferimento ad un quadro con un ventaglio sintomatologico piuttosto ampio: i sintomi cardine - impulsività, iperattività, disattenzione e oppositività - possono essere presenti in quantità e qualità variabili. Ad essi, poi, si associano una serie di problematiche secondarie (legate all'apprendimento, all'emotività, alle relazioni interpersonali, all'incolumità fisica del bambino stesso e dei coetanei), che sono il risultato dell'interazione tra le caratteristiche primarie del disturbo e l'ambiente.
I bambini con diagnosi ADHD (preferisco usare questo acronimo perché usato da tutta la letteratura scientifica) vivono infatti disagi quotidiani nell' interazione con genitori, insegnanti e coetanei; il percorso di apprendimento risulta notevolmente ostacolato dalle loro caratteristiche cliniche, che li predispongono all'insuccesso scolastico e ad una costruzione del sé come incapace o “cattivo".
Questa incomprensione ed incapacità a risolvere il problema deriva innanzi tutto dalla mancanza di un rapporto di collaborazione tra contesto sociale extra-famigliare e famigliare. In altre parole in Italia si fa ancora molta fatica a considerare l'ADHD come una vera e propria patologia e molte volte viene vista solo come semplice mancanza di educazione o pigrizia del bambino. Questa particolarità, purtroppo, non fa che aggravare la situazione del bambino stesso che molte volte viene messo in disparte per evitare “problemi", ed è per queste motivazioni che è importante una diagnosi accurata e preventiva ed un intervento immediato.
Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività venne descritto per la prima volta agli inizi del 1900, quando G.F.Still pubblicò alcune osservazioni su un gruppo di bambini fortemente disturbati, ipercinetici, irrefrenabili, affetti, secondo lui, da una turba neuropsichiatrica organica. In realtà, i sintomi tipici dell'ADHD esistevano molto tempo prima ed erano enormemente diffusi. Trecento mila anni fa, i nostri antenati iperattivi e impulsivi furono i decisi e instancabili trascinatori dei movimenti di massa che favorirono la localizzazione dell'uomo in aree terrestri idonee per la sua migliore sopravvivenza. Oggi, però, queste caratteristiche di impulsività e sfrenatezza, volute e selezionate dalla natura, risultano non conciliabili con i modelli della vita moderna all'interno di società sempre più strutturate. L'intervento terapeutico sull'ADHD si basa su un approccio di tipo multi-modale che prevede il coinvolgimento sia del bambino che di genitori ed insegnanti.
L'efficacia del parent training (intervento sui genitori) è dimostrata scientificamente da numerose ricerche e consiste in un programma individualizzato volto all'insegnamento dell'attuazione di metodi d'intervento che sottendono sostanzialmente quelli della psicologia cognitivo-comportamentale. Il principio di base è, infatti, quello di ridurre i sintomi e gli atteggiamenti negativi aumentando quelli positivi, stabilendo e producendo delle opportune conseguenze ai comportamenti del bambino in termini di rinforzi o punizioni. Non deve mancare, accanto all'insegnamento delle strategie di gestione del comportamento, un lavoro volto a riformulare le attribuzioni cognitive che i genitori, più o meno consapevolmente, mettono in atto per spiegare i comportamenti del figlio. Il parent training, altresì, oltre a dare un sostegno rivolto alle frustrazioni dei genitori, insegna loro l'utilizzo delle autoistruzioni verbali e delle tecniche di problem solving (risoluzione dei problemi) per far fronte, in collaborazione con il bambino, alle situazioni problematiche.